Il Kosovo, la Catalogna e noi. Quando il calcio veste la maglia della politica

IMG 6330Quando la secessione catalana, come riportato ieri sul principale quotidiano nazionale, viene raccontata con leggerezza attraverso la parabola del calcio, e la possibile futura partecipazione a due distinti campionati di Real Madrid e Barcellona viene banalizzata sostenendo che: “In fondo anche il Kosovo oggi ha una sua nazionale”, è evidente che siamo di fronte alla perdita di senso delle parole. E’ come se le tragedie dell’ultimo quarto di secolo non avessero insegnato nulla.

Il richiamo al Kosovo, dove esiste ancora oggi un contingente ONU (carabinieri italiani compresi) a garanzia della pace, rimanda al delicato racconto di Gigi Riva (più volte richiamato in questi giorni): "L'ultimo rigore di Faruk", che, attraverso il calcio, le sfide fra Dinamo Zagabria e Stella Rossa di Belgrado, racconta i tamburi di guerra, dapprima fra le tifoserie, poi fra gruppi di ultras e infine nei campi di battaglia dove risuonava il fragore delle armi, che hanno portato poi alla dissoluzione della ex Jugoslavia.

Una vicenda, quella della disgregazione della Jugoslavia, di cui sono stato testimone in un lontano e freddo 23 dicembre del 1990, quando, in qualità di osservatore internazionale, ho assistito al voto e alle successive operazioni di spoglio del plebiscito per l’autonomia della Slovenia dalla Jugoslavia. Una giornata passata fra i seggi della città e delle campagne dove si respirava l’odore acre del fumo prodotto dal carbone che usciva dai camini.

Allora rappresentavo la Regione del Veneto in quanto componente dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio. A quel tempo la stampa nazionale, ma più in generale la politica italiana, si occupava solo distrattamente di cosa stesse accadendo dall’altra parte della vecchia cortina di ferro, che appena un anno prima aveva ceduto, e anche l’opinione più avvertita, forte delle immagini di quel 1989 in cui erano caduti i dittatori, vedeva al massimo affiorare degli aneliti di libertà. Per questo, anche quell’invito ad inviare osservatori internazionali al Plebiscito venne derubricato quasi a semplice adempimento di cortesia con presenza di un volontario, magari il più giovane dell’ufficio di presidenza del consiglio. Fu così che la mattina successiva partii con il buio alla volta di Lublijana, dove fui accolto, assieme all’unico italiano presente (un senatore del Pci eletto a Trieste di cui non ricordo il nome ma che conosceva bene le questioni legate alla minoranza slovena nella Venezia Giulia), e da altri rappresentanti di paesi di lingua tedesca, nel municipio sulle rive del Ljubljanica.

Quel giorno io e molti altri assistemmo, senza la consapevolezza che avremmo acquisito nei giorni e negli anni successivi, al dissolvimento di quel vaso di pandora che era la Jugoslavia, che ha lasciato sul terreno più di centomila morti, fra cui bambini, donne e anziani, trascinandosi dietro una carica di odio che sopravvive ancora oggi.

Quel riferimento insostenibile al Kosovo trova invece ne “L’ultimo rigore di Faruk”, le parole giuste per raccontare ciò che potrebbe accadere ancora un domani: anche allora sembrava davvero impossibile potesse accadere quel che poi si è verificato a pochi chilometri dalle nostre case. Vorrei, invitando alla lettura del libro, pubblicare gli appunti che ho a suo tempo annotato e che possono aiutarci a riflettere, perché nessun paese è al riparo dalle tragedie.

Estate1990. I mondiali di calcio sono appena terminati e le bandiere dei club riprendono il posto di quelle nazionali. Ma non dappertutto. Dall'altra parte dell'Adriatico, vecchie bandiere riposte chiamano ad una sfida che non ha nulla di sportivo. Le tifoserie dei grandi club, dalla Dinamo alla Stella Rossa, da gruppi accomunati dalla passione sportiva diventano in poco tempo organizzazioni paramilitari. I colori dei club virano per diventare i colori di nuove “patrie”.

Avviene sotto ai nostri occhi, con piccoli segni che guardiamo distrattamente e a cui non vogliamo attribuire significati particolari. I colori e il calore del mare dalmata, l'aria di festa spensierata fatta di tuffi e di musiche balcaniche, non facevano presagire nulla di ciò che sarebbe poi successo. Con noi testimoni. "L'ultimo rigore di Faruk" ha il potere di far tornare a galla, dall’angolo più riposto dei ricordi personali, vicende ed emozioni a cui allora non avevo dato peso. Come quella sera a Murter, quando improvvisamente le luci si spengono e la notte prende possesso della festa. Una notte destinata a durare a lungo, facendo migliaia di vittime, provocando decine di migliaia di sfollati e di esuli. A pochi chilometri, verso l'interno, giusto lo spazio di qualche collina calcarea, a Knin qualcuno ha fatto saltare un traliccio, primi segnali di una guerra etnica che avrebbe fatto decine di migliaia di morti. Gigi Riva, ci racconta come "i tamburi di guerra non siano mai troppo invasivi all'inizio. Un'eco, un rumore di sottofondo da scacciare con fastidio, come una mosca d'estate". Quella mosca fastidiosa l'avverte Faruk Hadžibegic, difensore della nazionale iugoslava, bosniaco di Sarajevo, fiero dell’esperimento etnico che il suo paese rappresentava, orgoglioso di quella maglietta indossata, senza distinzioni e differenze, da serbi, croati, sloveni, montenegrini e macedoni. L'avverte, quella mosca, ma la maglietta della fratellanza che si sente cucita addosso vuole continuare ad immaginarla come bandiera che unisce. Lo sport come strumento in grado di unire nel tifo per i propri colori anche i diversi. Ma è proprio il tifo organizzato, quello degli ultras, quello che per primo diventa strumento di guerra, trasformando gruppi di hooligans anarchici in falangi militarizzate.

E il tutto avviene mentre l'occidente, nella notte totalitaria, distingue a malapena i serbi dai croati, la Dinamo Zagabria dalla Stella Rossa.

Un racconto, quello di Gigi Riva, che ci interroga su quale campionato giocheranno in futuro Barcellona e Real Madrid, se la Champions sarà ancora un orizzonte comune, come in quella notte in cui assieme all’amico Pasqual Maragall, già sindaco di Barcellona dal 1982 al 1997 e presidente della Catalogna dal 2003 al 2006, assistemmo al Camp Nou alla semifinale Barcellona Inter. Ma quella è un’altra storia e ci tocca da vicino in queste ore drammatiche.

Ivo Rossi

Padova 5 ottobre 2017

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