L'ingegnere con cui realizzando ponti abbiamo creato luoghi e identità. Contributo per una raccolta sull'opera di Enzo Siviero
Ho imparato in questi anni quanto vera sia l’affermazione in cui si dice che le città “camminano sulle gambe degli uomini”, quasi a ribadire come siano in primo luogo dimensioni dello spirito, plasmate dalle passioni e dai sentimenti. Altro, dunque, rispetto a chi si limita a guardare alla materia come natura morta che assume forma di edifici attraversati da reticoli stradali privi di anima. Sono gli uomini, con le loro visioni, i loro umori, la loro carica di energia che contribuiscono a determinare la forma, la personalità e dunque i destini delle città. Che in tal modo diventano comunità. Ma ce ne sono alcuni che hanno più capacità di altri nell’imprimere direzioni alla rotta delle esistenze
e Enzo Siviero, di cui mi piace parlare al presente, continuando un’interlocuzione che dura da alcuni decenni, è uno di questi.
Perché ne parlo volentieri? Perché è un costruttore infaticabile di opere tese a dare un senso al luogo, ad arricchirne la personalità. Parlare di lui come l’uomo dei ponti, che rompe i muri delle separatezze potrebbe apparire scontato, troppo facile interpretarlo solo dentro a questa dimensione più nota. In realtà ha saputo trasformare la materialità del ponte, il suo essere una semplice trave che collega due estremità divise, in un’opera d’arte che dà senso al luogo, che genera nuovi “luoghi”, attribuendo a questi carattere e identità riconoscibili da coloro con cui entra in relazione, potremmo dire usufruiscono del suo essere elemento della relazione.
Mi è sempre piaciuta quest’idea che l’opera nelle città sia figlia di un alfabeto che costruisce parole e narrazioni, e che la semplice funzione, senza il suo inserimento in un contesto, sia ben poca cosa; di come l’ingegneria e l’urbanistica, pur nella loro dimensione specialistica dal punto di vista tecnico, possano essere annoverate, nella loro più alta espressione, fra le scienze umane che contribuiscono a definire identità.
In questo senso Enzo ha dato e continua a dare un contributo importante, come progettista, ma sopratutto come formatore di giovani e scopritore di talenti.
Questa sua lettura del rapporto fra l’opera e la città dell’uomo è ben presente nella rivista “Galileo”, che nel tempo è diventato un vero e proprio manifesto dell’ingegneria, oggi diremmo, 2.0. E’ facile dirlo oggi, era difficile realizzarlo 25 anni fa. Ricordo uno dei miei primi incontri con Enzo in cui discettavamo della creazione della “città metropolitana di Padova”, attorno a cui avevo presentato in Regione un progetto di legge, una suggestione anticipatrice di questioni di straordinaria attualità. Era il 1993, e quella discussione diventò un numero speciale della rivista, dedicato alla riflessione e all’approfondimento di un tema ancora vivo, dove a far difetto era, e purtroppo continua ad essere soprattutto oggi, la cultura della polis di troppi protagonisti.
Ma proprio perché le città sono luoghi delle relazioni e dello scambio fruttuoso di idee e di opere, ci siamo ritrovati nel dar vita a nuovi ponti creatori di luoghi, in cui la sua supervisione e l’accompagnamento di valenti allievi, hanno consentito di creare delle autentiche opere d’arte.
Ma questa è storia più recente, dove attraverso i ponti, molti dei quali ciclabili, la città ha immaginato un nuovo linguaggio delle relazioni, fatto di sedimi e di opere dall’alto valore simbolico.
Si tratta di un capitolo di cui si è appena cominciato a scrivere la trama, ma che può contare su una solida traccia e sulla disponibilità di Enzo a continuare ad attraversare le nuove frontiere del vivere contemporaneo. Ovviamente… costruendo ponti.
Ivo Rossi
8 aprile 2016