Sul futuro di Padova

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D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda

Italo Calvino

7dbd8a91 9c6a 4d41 bd48 a289fa5e4afbLe città sono organismi fragili, delicati e allo stesso potenti. Sono i luoghi in cui le persone con le loro passioni e le loro opere, nel trasformare le pietre, definiscono la “personalità” della città. Sono le persone a generare quell’effetto-città che distingue una realtà da un’altra. La città è contemporaneamente individualità e molteplicità, è un luogo della mente che esiste in quanto trasmette sentimenti, restituisce identità, definisce il senso di appartenenza e identificazione nei luoghi. La città si può amare se ci fa sentire partecipi di un destino comune. Una sfida che ci riguarda.

Sommario: Il Piano nella stagione del pensiero breve - Il Piano degli interventi - PaTreVe, il cuore del Veneto centrale - La via Emilia e la statale 11 Padana superiore - Dai fallimenti istituzionali, la ricerca di nuove strade - La Grande Padova: il Progetto di legge regionale n. 305/1993 di istituzione del Comune denominato “Città di Padova” mediante fusione dei comuni - La Comunità Metropolitana di Padova - PATI e della cattiva abitudine di cambiare la pianificazione à la carte - Quale mestiere immagina di fare Padova nel futuro? - Le sfide della pandemia - I caratteri del Piano - Le parole del Piano e i nodi politici - Il nuovo ospedale per la città della salute globale - Uso consapevole del suolo e sicurezza territoriale - Rigenerazione e qualità urbana - La rigenerazione urbana e la città pubblica e policentrica - Forestazione urbana e corridoi verdi e blu - Mobilità sostenibile e attrattività del centro storico - Economie in cerca di città: Università, ricerca, sanità e servizi.  Appendice: Padovasmart

Il Piano nella stagione del pensiero breve

Viviamo la stagione dei pensieri brevi, quelli riassumibili nei 280 caratteri di un tweet. L’analisi è sostituita dall’incessante, quanto repentino commento ai singoli fatti. Non abbiamo più tempo da dedicare a valutazioni che possano apparire complesse. Eppure, mai come in questi tempi che viviamo, in cui le certezze di ieri non rassicurano più, è necessario ritornare a riflettere oltre la dimensione di un post, interrogarsi sulle radici del nostro futuro, anche se si corre il rischio di ridursi ai manzoniani 25 lettori.

La pandemia sta accelerando processi latenti con una rapidità prima inimmaginabile. Siamo probabilmente dentro ad una grande rivoluzione, allo stato attuale solo in parte visibile, che richiede nuove chiavi di lettura della società e dei suoi processi produttivi. Molti lavori sono destinati a sparire e altri, dotati di nuove competenze, a sostituirli. Anche la vecchia idea di Piano urbanistico, figlia del Novecento, sarà chiamata a fare i conti con la destrutturazione che la dimensione digitale e l’uso sempre più vasto dell’intelligenza artificiale provocherà.

Il Piano degli interventi, commissionato dal Comune di Padova a un gruppo di professionisti, per la rilevanza materiale a cui il ridisegno della città post pandemia necessariamente rinvia - disegno che si innesta dentro una città che ha stratificato scelte e consolidato traiettorie - proprio perché è proiettato nel futuro, ha bisogno di riannodare i fili con il suo recente passato, un ancoraggio alla stagione analogica che richiama al ruolo di Padova nel Veneto, al suo rapporto metropolitano con Venezia, al rapporto della città con i comuni contermini con cui forma un’unica realtà (Co.Me.Pa)[1], al ruolo economico della città, alle sue vocazioni e agli asset che la caratterizzano, alle rilevanti questione della qualità dell’abitare post Covid-19 e agli effetti sul lavoro introdotti dallo smart-working. Questioni di una vastità straordinaria, su cui d’altra parte si è scritto molto[2], sono state ingaggiate battaglie politiche e culturali[3] che meritano di essere rilette e, laddove abbiano ancora una loro forza e capacità di suggestione, dovranno essere necessariamente aggiornate per rispondere ai cambiamenti intervenuti, oppure, diversamente, essere consegnate definitivamente a qualche polverosa soffitta. 1  

Il dibattito aperto dal sindaco Giordani che sollecita una riflessione corale della città, non riguarda solo gli attori politici. Anche se viviamo in una società impaurita, in cui molte categorie economiche e professionali sono costrette a guardare solo dentro al proprio studio, al negozio o ristorante, preoccupate di non dover chiudere, anche quelle voci, assieme anche a quei settori più avanzati della nostra società, che dentro la crisi ce la stanno facendo, sono essenziali assieme a quelle dei molti appassionati della cosa pubblica per aiutare a tracciare i solchi della rinascita, in cui tutti sono coinvolti e nessuno è lasciato indietro.

Il Piano degli Interventi

La redazione del Piano degli Interventi, moderno strumento di regolazione dello sviluppo urbano in un arco temporale dato, rappresenta, qualora lo si voglia cogliere, una straordinaria occasione per affrontare e indirizzare le trasformazioni della città nel periodo post pandemia. Le grandi crisi, come lo è stata quella economico-finanziaria del 2008/9, i cui effetti - centinaia di imprese in ginocchio, in particolare nel settore immobiliare e delle costruzioni, scomparsa o riduzione alla marginalità di interi settori professionali - producono sconvolgimenti che distruggono enormi quantità di valore e incidono in profondità nella vita di molte persone, allo stesso tempo introducono, qualora le si sappia cogliere, a nuove letture della realtà e a nuove traiettorie dello sviluppo.

In questo senso la redazione del Piano degli Interventi, in un periodo drammaticamente straordinario come quello che stiamo vivendo - anche se forse lo strumento tecnicamente più adeguato per affrontare i temi indicati dal sindaco sarebbe stato il PAT (piano di Assetto territoriale) - consente di focalizzare gli indirizzi e le scelte dentro un quadro che necessariamente rappresenterà una svolta importante rispetto al recente passato.

Ma come sempre gli strumenti in sé, se non maturano attraverso un grande dibattito pubblico che coinvolga la città nelle sue tante articolazioni, fatto di mondi professionali, produttivi e sociali, rischiano di rimanere puri esercizi di stile anche se vergati da grandi firme. Un grande dibattito, che coinvolga tutte le espressioni politiche in campo di per sé non mette al riparo dalla strumentalità del rapporto fra maggioranza di governo e l’opposizione - come le storie del Tram e del nuovo ospedale ci ricordano -, ma è indispensabile perché consente ai cittadini di formarsi convinzioni maturate nel confronto e allo stesso tempo far crescere eventuali embrioni di nuova classe dirigente, quella che meglio saprà rendersi interprete di nuove traiettorie.

Ognuno di noi è chiamato a contribuire, con le proprie competenze e sensibilità, a interpretare la nuova visione della città, della sua economia, degli stili di vita e di lavoro che caratterizzeranno i prossimi decenni.

Se si volesse rimanere all’interno del mero recinto della tecnica urbanistica, probabilmente le competenze del gruppo di lavoro sarebbero più che sufficienti, anche se si correrebbe il rischio di cucinare ricette uguali per tutte le città e a tutte le latitudini. Ma l’urbanistica altro non è che la traduzione in norme regolatorie della direzione di rotta che vogliamo tutti insieme intraprendere, per far sì che la città continui a crescere nella stagione green/digitale e a generare benessere per i suoi abitanti: da quelli del centro storico a quelli delle “periferie”, (che tali sono solo rispetto a qualcos’altro, cioè a ciò che consideriamo convenzionalmente “centro”).

La città non è un organismo urbano estraneo a ciò che lo circonda. Interagisce con altre realtà e nello scambio genera nuove e più feconde dinamiche. Il rapporto con Venezia e con le realtà urbane della cintura contribuisce e definire la città ed è da qui che è necessario partire per ridisegnare le scelte urbane “intra moenia”.

PaTreVe, il cuore del Veneto centrale

Le riflessioni avviate a partire dai primi anni ’90 sull’integrazione profonda che caratterizza le realtà territoriali di Padova, Venezia e Treviso, contengono indicazioni ancora utili, non tanto sulla forma giuridica da dare all’area metropolitana dell’area centrale del Veneto - su cui ritorneremo -, quanto per la necessità che quest’area, riconosciuta dall’OCSE[4] come uno dei grandi nodi europei “informali”, possa dotarsi di politiche in grado di affrontare la competizione fra territori, agglomerando reti di imprese innovative e di servizi, che consentano di generare sviluppo e benessere anche per le future generazioni.2

Questa “città” in nuce è certificata da alcuni decenni dal pendolarismo sistematico mostrato dai flussi che legano i luoghi della residenza ai luoghi del lavoro. In questo senso, come ha scritto recentemente Paolo Costa[5], parliamo di “area urbana funzionale”. Una città che negli anni Novanta del Novecento vantava “funzioni internazionali”[6] che in parte, come vedremo, in assenza di politiche adeguate sono emigrate verso altre destinazioni metropolitane.

Se il Veneto, l’intero nordest, vuole continuare a crescere superando il tradizionale policentrismo acefalo, se similmente all’impresa vuole accrescere la sua capacità competitiva sui mercati globali (il passaggio alla green e digital economy è un’opportunità in più), ha bisogno di dotarsi di una “città” riconoscibile, di un’area metropolitana che alimenti il motore generatore di prosperità economica e di riduzione delle diseguaglianze sociali.

Il Veneto, ancora una volta, sarà chiamato a scegliere fra un policentrismo a-gerarchico e una densificazione metropolitana delle funzioni. Fra un sovranismo localista e la cooperazione sistemica.

L’assenza di una strategia ha portato con sé il progressivo svuotamento di funzioni di scala che oggi, per chi fa impresa, si possono trovare nell’area milanese, o, nel caso delle funzioni pubbliche, a Roma. Il Veneto e la sua area centrale, in assenza di una visione che andasse oltre il policentrismo, con l’indistinzione paritaria e concorrenziale dei ruoli e delle funzioni ha pagato il prezzo di cedere, uno dopo l’altro, i grandi asset che lo caratterizzavano sia sul piano finanziario, sia su quello dei servizi a rete e su segmenti, come quello delle fiere e degli stessi parchi scientifici. La concorrenza interna, anziché rivolta verso l’esterno, ha finito per dissanguare e impoverire il sistema.

Porsi il problema del ruolo e dello sviluppo di Padova, a questa scala, è indispensabile perché è a questo livello che possono essere affrontati i principali problemi dell’area. Si tratta di un’area, che nonostante rappresenti ancora uno dei principali motori economici del paese e venga riconosciuta  fra le aree più dinamiche e produttive d’Europa, soffre di una crescita della popolazione molto bassa con un invecchiamento della popolazione[7] che, se non affrontato, è destinato a generare enormi problemi nel futuro. Altri aspetti che richiedono politiche di scala adeguate, che però non sembrano rientrare nell’agenda regionale con l’urgenza che richiederebbero, sono riconducibili a un mercato del lavoro in cui prevalgono quelli che vengono definiti “lavoratori informali”, una scolarizzazione ancora troppo bassa (solo poco più di un abitante su tre possiede un titolo di scuola media superiore) e una formazione di figure professionali adeguate alle nuove necessità delle aziende. Proprio la scarsa scolarizzazione spiega, in parte, i relativamente bassi investimenti in ricerca e sviluppo. Con il paradosso che le alte professionalità formate negli atenei veneti preferiscano l’estero perché la scarsa capitalizzazione e la modesta dimensione delle imprese non sono in grado di valorizzare risorse dotate di elevate competenze e allo stesso tempo remunerarle come avviene negli altri paesi.

A fronte di tali criticità, in cui il capitale umano potrebbe presentarsi come un ostacolo e un limite alle trasformazioni, quest’area possiede le potenzialità, qualora prendesse consapevolezza della sua forza relativa e dei correttivi da mettere in campo, per essere ancora uno dei territori di sicuro interesse a livello europeo e in particolare del suo corridoio sud, quello che da Barcellona, passando per Milano, guarda verso Lubiana e l’est Europa. E nella stagione post Covid19 la consapevolezza di un salto di scala, diventa una necessità.

Si tratta di questioni che sono sul tappeto da più decenni, rimosse dalla Regione, che non dimentichiamo, nella sua rappresentanza politica è stata a lungo espressione del policentrismo a-gerarchico e acefalo in cui le grandi città, e la loro conglomerazione metropolitana, sono state avvertite come entità antropologicamente estranee ed  ostili. Il policentrismo politico regionale e la conseguente rappresentanza dei relativi interessi, che meglio di quelli metropolitani hanno saputo imporsi a livello regionale dettandone l’agenda politica, ha prodotto costosissime connessioni pedemontane in alternativa al rafforzamento degli assi rappresentati dai collegamenti con Milano e con la stessa Bologna. I ritardi infrastrutturali non sono figli del caso o di cattive politiche centralistico-romane (quando non ci sono soldi sufficienti si scelgono i progetti su cui c’è consenso), ma del prevalere di troppi micro interessi municipali a cui la “Regione del Grappa”, più che di Venezia, ha sempre guardato. La vicenda del nodo di Vicenza dell’alta capacità ferroviaria che si trascina da trent’anni (la discussione sul progetto è iniziata in Regione nel luglio 1990), è da questo punto di vista emblematica. Lo è anche la scarsa, per non dire nulla, attenzione prestata alla linea ferroviaria Padova-Bologna, su cui non è previsto alcun intervento in termini di alta capacità, che se realizzata consentirebbe di rafforzare il triangolo padano ai cui vertici si trovano le città di Milano, Bologna e Padova. 

La via Emilia e la statale 11 Padana superiore

Questi limiti sono tanto più evidenti se si guarda un po’ più a sud e in particolare a che cosa è successo in pochi anni in Emilia-Romagna e al suo riconosciuto cuore metropolitano: Bologna. Una regione simile al Veneto, ma che negli ultimi anni si è affermata facendo crescere il proprio capitale umano e si è andata specializzando a ritmi decisamente superiori rispetto a quelli della nostra regione.

Lungo l’asse della via Emilia, grazie all’infrastruttura dell’alta velocità che ha collegato in un’ora Bologna con Milano e in meno di trenta minuti Bologna con Firenze, è cresciuta prepotentemente una realtà economica significativa. Una dimostrazione indiretta di come una gerarchizzazione cooperativa favorisca la crescita di tutto il sistema. A determinare questo successo hanno contribuito i tratti di una subcultura territoriale che privilegia modelli cooperativi, sia nei rapporti fra i diversi livelli istituzionali sia nei modelli d’impresa, una cultura che ha determinato l’affermarsi di solide realtà imprenditoriali nazionali come Hera, Coop, Unipol e BPER, divenute grandi player nazionali che, nel caso dei servizi, hanno assorbito realtà venete programmaticamente divise. Il Veneto, pur essendo una terra che alla fine dell’Ottocento ha prodotto i primi istituti solidaristici e cooperativi, è da sempre caratterizzato da una forte impronta individuale. I rapporti fra le istituzioni sono più formali che sostanziali. Prevale il “fai da te” e un modello competitivo fra campanili, che enti gerarchicamente sovra-ordinati come la Regione, non hanno mai messo in discussione o cercato di superare, o almeno armonizzare. Il paroni a casa nostra”, che identifica il sovranismo della più piccola frazione, sta diventando un potente ostacolo posto sulla strada della crescita. Due esempi dei limiti di questa impostazione: la crescita disordinata delle aree industriali con l’inseminazione di capannoni e dall’altra parte la scarsa propensione alla gestione  solidale dei servizi fra comuni e alle modestissime fusioni di realtà comunali di piccolissime dimensioni (per esempio Laghi con 131 abitanti). Su tali questioni, che riflettono una sorta di antropologia culturale di questa nostra terra, siamo chiamati a fare i conti poiché si riflettono sulla vita delle città e rischiano di dissipare un capitale potenziale straordinario, e qualora si ritengano fondate le osservazioni, va riconosciuto che ad oggi non esistono una agenda regionale e le politiche conseguenti.

Una riflessione meriterebbero alcune indicazioni contenute nel Programma di governo della Regione del Veneto 2020 -2025, presentato dal presidente Zaia nello scorso mese di ottobre, perché accanto alle tradizionali parole d’ordine del leghismo sovranista e alle relative mitoligie del leon, contengono timidi riferimenti all’Europa delle regioni. “Il Veneto del futuro dovrà essere sì autonomo, ma non affatto isolato. Anzi, lo spazio sociale, economico, relazionale in cui si muoverà sarà necessariamente quello che guarda a Ovest, verso Milano, e a Nord, verso le altre regioni competitor dEuropa. Con Milano e le altre aree ad economia avanzata del Nord-Ovest è necessario elaborare e costruire una nuova geometria propulsiva nellambito della spietata competizione globale[8]”. Allo stato attuale è difficile dire se si tratti di suggestioni saccheggiate da testi di derivazione universitaria o confindustriale, oppure di “contaminazioni” che lasciano intravvedere qualche cambio di rotta. Ma pur non venendo esplicitato alcun indirizzo metropolitano per il Veneto, il riconoscimento di altre realtà strutturate e della loro importanza, se confermato dalle azioni e non solo nelle enunciazioni, costituirebbe un indubbio passo avanti.

Dai fallimenti istituzionali la ricerca di nuove strade

Senza addentrarci nella complessa e piuttosto contorta vicenda italiana delle città metropolitane[9] è sufficiente, per cogliere alcuni aspetti salienti, richiamare sinteticamente l’approccio che nel corso degli anni hanno avuto i legislatori nazionali, regionali e locali.

Le città metropolitane in Italia vengono introdotte e indicate con la Legge 142/90, assegnando alle regioni l’individuazione dell’ambito territoriale. Il dibattito che ne è seguito, in particolare nel Veneto - ma si tratta di caratteristica comune di quasi tutte le regioni - non ha conseguito nessun risultato. Va considerato che in quella stagione le regioni avevano da poco compiuto i primi vent’anni. Si sentivano ancora fragili, quasi in prestito, e avevano, come nel caso veneto, anche simbolicamente, da poco abbandonato l’aula concessa dal Consiglio provinciale di Venezia. In quel contesto avvertivano la nascita di una forte realtà metropolitana come un pericolo per la propria stessa esistenza.

Anche le “psicologie” delle istituzioni, che riflettono quelle degli uomini che le guidano, aiutano a spiegare quanto è successo. Non a caso, nel Veneto, la discussione sulle caratteristiche territoriali dell’area metropolitana di Venezia non andrà oltre l’ipotesi di inserimento di alcuni comuni contermini la realtà di Mestre. Insomma, se proprio il legislatore nazionale demanda alle regioni l’individuazione del territorio metropolitano, queste non vanno oltre un esercizio simbolico di insignificante allargamento del Comune capoluogo regionale.  E’ in quel periodo che nella società veneta, supportata da numerosi centri di ricerca (IRSEV, COSES e altri, negli anni successivi cancellati), si sviluppa il dibattito attorno all’integrazione dell’area identificata dalla PaTreVe.  Quei centri di ricerca erano serviti nella prima stagione della regione a esplorare, dare forma, contenuto e visione a una classe politica che si avvicinava ad un territorio che conosceva solo attraverso la sua espressione provinciale, mai come realtà regionale in sé. Tema antico, che si ritrova nel dibattito promosso nel 1913 dal quotidiano padovano, Il Veneto, in cui ripetutamente si afferma che: ”La Regione nostra - nelle sue rappresentanze più in vista - e pur nel suo intimo - non ha mai saputo dar vita ad una coscienza regionale”, invitando ad assumere consapevolezza di rappresentare una realtà che può prosperare con lo sviluppo del porto di Venezia, che non è solo città celebrata dagli esteti che “s’inchinano alle guglie dorate e ai tramonti di fuoco”. Su questo sarebbe interessante tornare a riflettere perché aiuterebbe a comprendere il modello policentrico, che modello non è ma una presa d’atto fotografica di ciò che la storia ha stratificato, fatta di sommatorie territoriali, di identità plurali e allo stesso tempo della necessità di un ancoraggio mitologico a una identità che vada oltre quella sommatoria.

Con la riforma costituzionale del 2001 (art. 114, Cost.) le Città metropolitane, al pari dei comuni, delle province, delle regioni e dello Stato vengono poste sullo stesso piano a formare la Repubblica. E’ la stagione in cui è intenso il dibattito, in particolare nel Veneto, sull’autonomia dei diversi ambiti territoriali, in particolare le regioni.

Si dovrà attendere il 2012, (presidente del Consiglio Mario Monti e Filippo Patroni Griffi ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione) per una ripresa del dibattito attorno all’istituzione delle Città metropolitane e al ridisegno dei territori provinciali. La riforma, a seguito dell’impegno assunto assunto dal governo Berlusconi con l’Unione Europea, in un momento di gravissima crisi finanziaria dell’Italia, prevedeva l’accorpamento delle province e la contemporanea istituzione delle già indicate Città metropolitane (legge 142/90). Il dibattito nel Veneto, a seguito dei parametri indicati (superficie dei territori delle province e popolazione) porta a immaginare diverse soluzioni di possibili accorpamenti: Rovigo con Verona, Padova con Treviso oppure con Rovigo, lasciando la prevista Città metropolitana di Venezia nella sua solitudine. E’ in questo contesto che si avvia un intenso lavoro fra il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni e di Padova, Flavio Zanonato, che  porterà il Consiglio comunale di Padova - deliberazione destinata a rimanere un caso più unico che raro nel panorama politico e istituzionale repubblicano - ad approvare l’adesione del Comune di Padova alla Provincia di Venezia[10] che si andava trasformando in Città Metropolitana di Venezia. Nel disegno immaginato, al cui esito finale avrebbero dovuto aggiungersi anche altri comuni contermini[11], si sarebbe creata una città metropolitana del Veneto centrale, in cui le città di Padova e di Venezia avrebbero svolto il ruolo di bilanciere integrato.

Quello assunto dall’amministrazione guidata da Flavio Zanonato  - in cui mi trovavo a svolgere la funzione di vicesindaco con delega alla Città metropolitana, - è stato un atto di grandissimo rilievo politico, perché rimuoveva i tradizionali ostacoli posti alla creazione di una grande città metropolitana del Veneto. Lo stesso sindaco di Treviso, Giampaolo Gobbo, manifestò all’epoca, - senza che ci fosse il tempo per la produzione di atti formali (il ritiro della proposta Patroni Griffi vanificò il lavoro fatto) - una sostanziale condivisione dell’indirizzo assunto[12].

In sostanza la città di Padova, pur rimanendo inalterata nella sua fisionomia comunale originaria con i relativi poteri, rinunciava al titolo di capoluogo di provincia per trasformarsi, assieme ad altri municipi contermini, in comune facente parte della Città metropolitana di Venezia. Nelle discussioni di quei mesi con il sindaco di Venezia Orsoni, ci si era spinti a immaginare un modello di governance duale, in cui il sindaco metropolitano sarebbe spettato a turno alle due città capoluogo, riconoscendo il peso ed il ruolo paritario delle due realtà. Probabilmente quell’atto è stato il più innovativo e avanzato progetto di riforma istituzionale immaginato nella regione del policentrismo di comodo, non a caso assunto dalle due città e distrattamente osservato dalla regione. Si trattava di un atto che mostrava la consapevolezza di Padova e Venezia di far fronte, con una vera innovazione istituzionale, alle sfide della competizione fra sistemi di aree urbane e allo stesso tempo, della necessità di un salto di scala riassunto nel valore simbolico del nome ‘Venezia’, nome che, a livello internazionale, spesso identifica l’intero Veneto come Venice region.

Il ritiro della riforma Monti/Patroni Griffi e la successiva approvazione della legge 56/2014 (governo Renzi appena succeduto al governo Letta), porterà alla burocratica costituzione della Città metropolitana di Venezia, comprendente per legge, come per tutte le altre città, tutto il vecchio territorio provinciale. In sostanza il legislatore nazionale si limiterà a fotografare la geografia istituzionale creata nell’Ottocento sul modello napoleonico, rinunciando a una innovazione istituzionale che a cavallo fra il 2013/14 si stava manifestando come possibile.

E’ interessante qui ricordare come il paziente lavoro fatto fra il 2012 e il 2014 dalle amministrazioni comunali di Padova (Zanonato/Rossi) e di Venezia (Orsoni) abbia lasciato una traccia importante nella legge 56/2014, che non a caso contiene un richiamo esplicito, ancorché indiretto, all’iniziativa di Padova e Venezia. Infatti l’art. 1, comma 6, della legge 56/2014 stabilisce che: “Il territorio della città metropolitana coincide con quello della provincia omonima, ferma restando liniziativa dei comuni, ivi compresi i comuni capoluogo delle province limitrofe, ai sensi dellarticolo 133, primo comma, della Costituzione, per la modifica delle circoscrizioni provinciali limitrofe e per ladesione alla città metropolitana. Qualora la regione interessata, entro trenta giorni dalla richiesta nellambito della procedura di cui al predetto articolo 133, esprima parere contrario, in tutto o in parte, con riguardo alle proposte formulate dai comuni, il Governo promuove unintesa tra la regione e i comuni interessati, da definire entro novanta giorni dalla data di espressione del parere. …..”. Il comma, come si ricordava, figlio dell’iniziativa politica dei sindaci di Venezia e di Padova, (nel 20013/14 mi trovavo a svolgere la funzione di sindaco), riconosceva una situazione, unica in Italia, di un capoluogo, Padova, che per poche centinaia di metri si trovava a confine con la provincia di Venezia e, dunque della possibilità, prevista per legge, di dare vita ad una città metropolitana comprendente al suo interno ben due capoluoghi di provincia. La vicenda del MOSE, con gli arresti che ne seguirono e i riflessi proiettati nella vicina città di Padova che tre giorni dopo sarebbe andata al ballottaggio per l’elezione del sindaco, cancellarono il lavoro di quella primavera 2014 e porteranno all’abbandono di una prospettiva che aveva saputo superare le porte del Parlamento. Quel comma, ancora vigente, rispetto alla pigra prospettiva della coincidenza dei vecchi territori provinciali con i nuovi ambiti metropolitani, introduceva un’innovazione significativa volta al riconoscimento della dimensione funzionale delle aree metropolitane.

La questione di dare un governo, fatto di traiettorie comuni e condivise nell’area centrale del Veneto, tanto più dopo la rivoluzione digitale che stiamo vivendo, è necessariamente ancora presente nell’agenda di chiunque si ponga il tema dell’attrazione di imprese e capitali e di competizione con le grandi aree europee.

La Regione, che ha appena superato i cinquant’anni di vita, è nel frattempo cresciuta in termini di rappresentanza degli interessi. L’elezione diretta del presidente ha contribuito a rafforzarne il peso e il ruolo. Probabilmente, anche se i precedenti inducono a riserve, sarà questa istituzione, una volta abbandonata la sindrome dell’ultimo nato, a misurarsi con la nuova sfida di dare al Veneto una “capitale” sostanziale e non solo simbolica. Il passaggio dal policentrismo a-gerarchico pedemontano alla densificazione metropolitana degli interessi sarà la prova della maturità. Una sfida che riguarda il Veneto tutto ed in particolare il suo asse padano superiore, quella Statale 11 oggi divisa fra chi guarda verso est e chi, come Vicenza, manifesta uno strabismo che l’ha portata negli ultimi anni a guardare verso la sponda dell’Adige, che tradizionalmente è attratta dall’area lombarda.

La Grande Padova: il Progetto di legge regionale n. 305/1993 di istituzione del Comune denominato “Città di Padova” …..[13]

Nel 1993, con la presentazione del progetto di legge 305/1993, la dimensione metropolitana della città di Padova e dei suoi comuni contermini, Albignasego, Ponte san Nicolò, Legnaro, Saonara, Noventa Padovana, Vigonza, Cadoneghe, Vigodarzere, Limena, Villafranca Padovana, Rubano e Selvazzano, entra direttamente dalla porta principale del Consiglio regionale. Attorno al progetto di legge, che previo referendum fra i cittadini dei comuni coinvolti prevede la fusione e la creazione di un unico grande Comune di circa 380 mila abitanti, si sviluppa un intenso dibattito[14] a cavallo fra il 1993 e il 1994, con la partecipazione, fra gli altri[15], di professori, economisti, imprenditori, sindacalisti, storici e sociologi destinati a guidare le più importanti istituzioni cittadine: Vincenzo Milanesi, Gilberto Muraro, Giuseppe Zaccaria che negli anni successivi, saranno eletti rettori della nostra Università. Non meno significativi i contributi di Paolo Costa, che di Venezia diventerà rettore di Ca’Foscari e sindaco; del direttore del Gazzettino Giorgio Lago e del Mattino di Padova, Maurizio De Luca, nonchè dei giuristi Mario Bertolissi e del presidente emerito della Corte costituzionale, prof. Livio Paladin[16].

Il confronto, riletto a distanza di alcuni decenni, mette in luce l’eterno dualismo città/campagna, centro/periferia, una tensione fra due polarità che attraversa la storia del Veneto.

Nel progetto di legge non figurano i comuni di Abano e Montegrotto Terme, che pur facendo parte integrante dell’area urbano-metropolitana gravitante attorno al capoluogo, erano interessati ad un  progetto di fusione, (proposta di legge presentata da Ivo Rossi ed Elio Armano) su cui saranno chiamati ad esprimersi mediante referendum i cittadini di quei comuni nel corso del 2001. Il referendum, confermando la tradizionale diffidenza a condividere politiche comuni, tanto più da parte di comuni aventi la stessa economia fondata su turismo e cura termale, darà esito negativo alla fusione e segnerà per quei territori l’affermazione di un ambiguo personaggio, che prima di entrare nella cronaca penale farà, in successione, il sindaco di entrambi i comuni.

La Comunità metropolitana di Padova

A testimonianza delle difficoltà dei processi e allo stesso tempo della ricerca ininterrotta di soluzioni per dotare la città di politiche adeguate alle nuove sfide economiche, urbanistiche e sociali, va qui ricordata la costituzione della Conferenza Metropolitana di Padova (Co.Me.Pa.).

Istituita nel 2003 fra i comuni di Padova, Abano Terme, Cadoneghe, Casalserugo, Limena, Maserà di Padova, Noventa Padovana, Ponte San Nicolò, Rubano, Saonara, Selvazzano Dentro, Vigodarzere, Vigonza e Villafranca Padovana, su mia iniziativa e grazie alla convinta adesione del sindaco Destro, la Conferenza Metropolitana di Padova è stata immaginata quale strumento di governo di un’area cresciuta attorno al nucleo centrale rappresentato dal capoluogo e, aspetto non secondario, quale passaggio intermedio verso la strutturazione funzionale dell’intero sistema dell’area centrale veneta.

Se il progetto di fusione del 1993 era stato considerato da molti protagonisti della vita politica di allora come una soluzione troppo forte e impegnativa, la strada cooperativa figlia della volontarietà, prevista con l’istituzione della Co.Me.Pa., è apparsa come una soluzione più adeguata per la condivisione di scelte strategiche. Uno degli aspetti più interessanti emersi negli anni di funzionamento della Conferenza, pur dentro le difficoltà che l’appartenenza a diverse forze politiche delle amministrazioni metteva spesso in evidenza, è sicuramente l’aver obbligato tutti gli attori a fare i conti con la complessità e la necessaria visione generale, trasformando tutti in potenziali protagonisti di sistema, e non solo portatori del punto di vista del comune rappresentato. In particolare, durante la redazione del PATI di cui vedremo fra poco, la discussione trasforma i sindaci da sindacalisti del loro comune (uso qui un’espressione che per taluni è esageratamente forte), in amministratori dotati di visione metropolitana.

La Comunità metropolitana, oltre ad alcuni risultati ottenuti sul piano della mobilità e della pianificazione urbanistica, ha rappresentato un salto di qualità nel rapporto fra realtà che mai in precedenza avevano avuto occasione, in modo congiunto e permanente, di affrontare questioni di interesse comune e di assumere, insieme, decisioni rilevanti. Lo stesso modello di rappresentanza e di governo dell’ente, pensato per garantire una funzione paritaria - pur riconoscendo un inevitabile diverso peso al capoluogo - prevedeva la presenza di due co-presidenti, uno in rappresentanza della città di Padova e uno a rotazione semestrale designato dai comuni metropolitani. Un modello così concepito indicava l’obiettivo del coinvolgimento massimo di tutte le realtà comunali che a turno ne avrebbero avuto la guida. Un modello simile, si parva licet,  al meccanismo di funzionamento del Consiglio europeo.

Va qui ricordato che, nonostante la Conferenza sembri essere entrata da alcuni anni in un inspiegabile cono d’ombra e scarsamente valorizzata come strumento di crescita comune, salvo piccoli riferimenti simbolici, rimane tutt’ora un importante strumento necessario per alimentare   politiche pubbliche alla scala adeguata.

PATI e della cattiva abitudine di cambiare la pianificazione à la carte

Con la redazione del PATI (Piano di Assetto Territoriale Intercomunale), approvato dalla conferenza metropolitana nel 2012, la pianificazione urbanistica, almeno per quanto riguarda sei aree d’intervento (il sistema ambientale; la tutela delle risorse naturalistiche ed ambientali e l’integrità del paesaggio naturale; la difesa del suolo; il sistema dei principali servizi a scala territoriale; il sistema relazionale, infrastrutturale e della mobilità; il sistema insediativo per le attività produttive) è diventata un obiettivo comune e condiviso. Si è trattato di una vera e propria impresa che ha comportato un enorme quanto paziente lavoro di cucitura e di rilettura territoriale. Mai, in precedenza, 18 amministrazioni avevano cooperato in più di 120 incontri fra sindaci, assessori e tecnici dei rispettivi comuni, tutti insieme alla ricerca di una condivisione delle scelte generali consapevoli della necessità di dare un ordine alle singole politiche comunali. Si tratta di uno strumento che, come sempre in questi casi, può essere letto attraverso le sue luci e le sue immancabili ombre, ma che assume un significato particolare proprio perché per la prima volta il comune capoluogo con altri 17 comuni, in co-pianificazione con la Provincia e la stessa Regione, definivano le loro linee strategiche. La dimostrazione di un percorso possibile.

Va aggiunto che si è trattato di una prima volta anche a livello nazionale, in cui più amministrazioni, su una superficie di 374 kmq, con una popolazione di oltre 400 mila abitanti, si sono trovate a cooperare per definire il possibile e originale orizzonte strategico.

Meritano un accenno, fra le scelte individuate, i servizi a scala sovra-comunale su cui più ampio è stato il dibattito in quanto, oltre alla verifica della presenza sul territorio dei servizi esistenti, si è3 programmata la localizzazione dei principali poli di interesse comunale, quali: il polo ospedaliero, quello fieristico, lUniversità, la logistica per quanto riguarda i servizi a scala provinciale e regionale, ma anche il sistema dei poli sportivi per listruzione superiore.

Mi soffermo sul nuovo polo ospedaliero e sull’individuazione della sua collocazione in zona ovest della città, in un’area di vaste dimensioni, in linea d’aria a circa un chilometro dalla stazione ferroviaria, con la previsione di realizzare, al fine di collegarla in termini funzionali, una linea tranviaria Stazione, Ospedale, Stadio, di circa due chilometri di lunghezza[17].

La scelta, che in parte riprendeva le originarie previsioni del Piano Regolatore del 1954 fatte dal progettista Piccinato, il quale immaginava il nuovo Policlinico nella zona di Montà, in alternativa alla devastazione delle Mura, è stata frutto di un’opera di concertazione fra tutti gli attori coinvolti, in primis la regione Veneto. La scelta di Padova ovest, zona Stadio, è avvenuta dopo aver preso in considerazione anche altre aree ricadenti nei comuni contermini, e solo dopo innumerevoli studi, alcuni dei quali raccolti in un volume curato dal prof. Umberto Trame[18]. Nella presentazione del volume, ricordavo come: “Fino ad oggi le dinamiche urbanistiche hanno comportato la concentrazione dei servizi ad alta attrattività, in particolare il direzionale e la zona industriale, nella parte a nord-est della città. E’ in questo quadro che nasce la necessità di ripensare all’equilibrio delle funzioni nel contesto di un tessuto urbano moderno ed efficiente. In questo senso, la zona ovest di Padova - fino ad oggi rimasta con un profilo incerto - offre grandi opportunità”.

Ricordo in particolare questa decisione perché, senza alcuna concertazione con tutti gli attori precedentemente coinvolti nella pianificazione, quella scelta è stata cancellata per traslocare le previsioni del nuovo polo ospedaliero nella parte più congestionata della città, la zona est, già interessata da presenze e pianificazioni commerciali e industriali. Un esempio da non seguire, che dovrebbe servire da monito per qualsiasi pianificatore e per le amministrazioni chiamate anche a scelte diverse da quelle originarie, perché la pianificazione non può essere sostituita dall’urbanistica à la carte, o, peggio ancora, “teleguidata”.

La modalità attraverso cui è stata cancellata una previsione assunta da 18 comuni assieme alla Provincia e alla Regione, oltre agli aspetti di merito, rimanda al valore giuridico degli atti e alla loro revocabilità, che in un paese che crede nelle regole del diritto, quello formale e quello sostanziale, dovrebbe essere assunta e decisa dallo stesso organo che li aveva approvati.  

Vanno qui ricordate anche le indicazioni relative al sistema relazionale infrastrutturale e della mobilità sovra-comunale, progettata per fornire un’infrastrutturazione del territorio funzionale al suo sviluppo economico e allo stesso tempo per garantire una qualità della vita della sua popolazione residente. Le principali scelte hanno previsto una gerarchizzazione e allo stesso tempo l’integrazione del sistema della mobilità, consentendo da un lato, di garantire un veloce flusso dei mezzi di trasporto, dall’altro di selezionare i sistemi e i flussi di traffico all’interno del sistema edificatorio, dividendo quelli propri degli ambiti insediativi da quelli di attraversamento e di correlazione con i grandi sistemi extra-comunali.

L’individuazione delle grandi direttrici di traffico, ma soprattutto le interferenze che queste comportano nelle varie situazioni sia insediative che ambientali, specifiche dei vari comuni, ha comportato una difficile opera di concertazione tra i comuni interessati, concertazione che ha consentito peraltro di definire tracciati che, al di là dell’indicazione strategica propria del PATI, hanno carattere pressoché definitivo, stabilendo inoltre le modalità di compensazione che andranno poste in essere contemporaneamente alla realizzazione delle opere programmate.Tra le opere di particolare importanza è il “Grande Raccordo Anulare di Padova” (GRAP)[19] e le indicazioni per i “corridoi plurimodali” integrati alla rete esistente con i rispettivi PAT comunali.

Merita di essere qui citato lo stralcio dalle previsioni di piano del raccordo ferroviario definito ‘Gronda sud ferroviaria’, progettato per collegare direttamente l’Interporto di Padova con la linea ferroviaria Padova-Bologna, in corrispondenza della vecchia stazione dismessa di  Abano Terme. Si tratta di un’opera che avrebbe consentito di migliorare l’efficenza del sistema interportuale padovano - di recente potenziato con l’investimento sulle gru a portale, voluto dal presidente della Camera di Commercio, Fernando Zilio - evitando il problematico attraversamento del nodo di Padova centrale, ed allo stesso tempo, di realizzare un’infrastruttura utilizzabile anche per il trasporto pubblico. A beneficiarne sarebbe stato il complessivo sistema della mobilità ed in particolare quella proveniente da sud, con non pochi vantaggi in particolare per il comune di Albignasego. In sede di discussione del PATI la nuova linea si trovava ad un livello di progettazione di fattibilità - progetto redatto a cura di RFI su sollecitazione del Comune di Padova, della Regione e della Provincia - ed era corredata da una prima ipotesi di modello di esercizio metropolitano. L’opposizione all’inserimento del raccordo ferroviario, è giusto ricordarlo per il danno arrecato all’intera comunità dei più di 400 mila abitanti che si muovono nell’area, è stato determinato dalla contrarietà ingiustificabile dell’amministrazione di Albignasego (che peraltro si è distinta in questi anni per un consumo di suolo senza precedenti), e di quella di Abano Terme, oggi conosciuta per i successivi rilievi penali mossi all’ex sindaco. Sulla utilità di quest’opera le amministrazioni dovrebbero essere chiamate ad una rilettura, tanto più necessaria per lo sviluppo dell’Interporto e per rivoluzionare il modo di muoversi in ambito metropolitano.

Il Recovery Plan attualmente in discussione a livello nazionale e regionale, in presenza di una forte iniziativa politica delle amministrazioni regionali e cittadine, potrebbe annoverare la Gronda sud ferroviaria[20] fra gli obiettivi strategici del Veneto centrale, superando antichi veti di amministrazioni locali vocate solo alla cura di micro e a non sempre nobili interessi.

Uno dei risultati più importanti raggiunto dalla concertazione comunale, ha riguardato il sistema produttivo, in quanto ogni comune ha condiviso il congelamento dello sviluppo delle proprie zone artigianali e industriali, salvo modesti ampliamenti necessari per il completamento delle stesse, riconoscendo che il ‘sistema produttivo’ si sarebbe dovuto sviluppare in “poli” unitari, ampi, infrastrutturati e adeguatamente collegati con il sistema delle maggiori direttici economiche. Questa scelta, mai messa in discussione, ha determinato, in prospettiva, un minor costo ambientale e un risparmio di risorse economiche per la realizzazione di servizi ed infrastrutture. Un deciso passo avanti rispetto alla “fabbrica per ogni campanile” che aveva caratterizzato la stagione post bellica.

Quale mestiere immagina di fare Padova nel futuro?

Come gli uomini, così anche le città vengono riconosciute oltre che per la loro storia, per le loro qualità culturali, per le attività che vi si svolgono e per il mix di competenze e qualità della vita che sanno offrire. Le città possono attrarre persone e anche capitali in cerca di valorizzazione.

E’ questo un grandissimo tema a cui siamo chiamati a dare una risposta, perché da questa dipenderà non solo il ruolo della città nel futuro ma, anche e soprattutto, il benessere dei suoi abitanti. Innumerevoli esperienze mondiali mostrano come le città, accanto a cicli di vita generatori di prosperità e benessere possono subire processi di declino, di perdita di reddito e di conseguente coesione sociale. Il caso limite delle città della Rust Belt, le cosiddette città della ruggine (Detroit, Cleveland) degli Stati Uniti ci ricorda la necessità di ricercare sempre nuove strade in grado di generare economie.

In questo senso le scelte che le città fanno e comunicano - il piano degli interventi è sicuramente un’occasione importante - sono strumenti di valutazione anche per tutti coloro che vogliono investire su saperi e sui contesti in cui farli sviluppare. Per questo diventano essenziali le indicazioni che emergeranno, fatte di aggiustamenti della rotta tracciata e di nuove traiettorie per il futuro.  

E’ un compito essenziale che rimanda ad una diversa consapevolezza da parte degli attori politici, troppo spesso concentrati sull’ordinarietà dell’amministrare, richiede un di più di riflessioni sulla vocazione[21] della città, e allo stesso tempo un diverso mix di competenze anche da parte della stessa ‘macchina’ comunale.

Le sfide della pandemia

I lunghi mesi di lockdown e la modifica di molti nostri comportamenti, obbligano ad un nuovo approccio alla città in costruzione. La pandemia ha inciso in profondità le nostre relazioni sociali ed economiche e la nostra percezione dell’ambiente e dello spazio in cui la vita si svolge. La dimensione spettrale delle città, ridotte a straordinarie quanto vuote quinte di palcoscenico, rimarrà probabilmente nella memoria di quei mesi in cui il fluire della vita è temporaneamente scomparso dallo spazio pubblico. La domiciliazione coatta a cui siamo stati obbligati ci ha costretto a guardare e interpretare lo spazio - quello privato e quello pubblico - con occhio diverso, scoprendo angolature inaspettate e spesso sorprendenti. Il distanziamento fra le persone, come nuovo metro delle relazioni interpersonali, ha ulteriormente ridisegnato gli spazi della socialità nello spazio pubblico.

Le città, in virtù dei processi indotti dalla pandemia, sono già cambiate e saranno chiamate ad uno sforzo interpretativo e organizzativo straordinario che può essere vissuto o in termini difensivi immaginando un ritorno alla “normalità” della vita precedente, o accettando nuove sfide che impongono cambiamenti profondi di traiettoria.

L’amministrare, inteso come gestione degli affari ordinari, dovrà lasciare il posto al progettare, alle suggestioni della visione, alla costruzione di nuovi orizzonti in cui traghettare la città futura.

Se le città, nella loro forma e rappresentazione, riflettono le risposte succedutesi nel tempo ai bisogni dell’uomo - pensiamo ai portici come estensioni della residenza in funzione delle attività artigianali -, è dai cambiamenti indotti dalla pandemia sulle nostre vite che bisogna partire per ripensare le città, i loro servizi e la loro nuova struttura.

L’irruzione della dimensione digitale, prima presente in forma quasi accessoria, ha indotto profondi cambiamenti nelle nostre comunicazioni interpersonali, ma è sopratutto nel lavoro che l’introduzione spinta dello smart working determinerà profondi processi di trasformazione organizzativa. Una potenzialità, immaginata come opportunità teorica, è diventata improvvisamente una realtà per centinaia di migliaia di persone e di aziende che hanno “scoperto” i vantaggi sistemici del lavoro a distanza, che abbatte costi aziendali e spostamenti di persone. Si tratta di una svolta destinata a rimanere e ad estendersi in futuro (si valuta che il lavoro a distanza riguarderà fra il 30 e il 40% degli attuali addetti ai servizi), trasformando lo spazio privato, fino a ieri immaginato in funzione esclusiva della vita domestica, in spazio polifunzionale. E se lo spazio dell’intimità cambia segno, un cambiamento uguale e contrario riguarderà lo spazio in cui si esercita l’ufficio, il lavoro in rapporto agli altri. La scienza della pianificazione urbanistica novecentesca ha separato gli spazi del lavoro - inteso come attività ‘altra’ rispetto ai luoghi della convivenza - organizzando la città per funzioni (zone industriali, artigianali, direzionali, residenziali), suddivisioni che le amministrazioni cittadine sono ora chiamate a ripensare, prevedendo una diversa articolazione delle superfici dedicate alla vita “privata” e una trasformazione di quelle funzionali. Queste trasformazioni incideranno in profondità sui meccanismi della rendita urbana, sui valori immobiliari degli edifici e delle diverse aree della città, fenomeni destinati a modificare valori e a trasferire ricchezza, o a generare fenomeni di impoverimento, fra le persone e gruppi sociali. Governare il processo, o lasciare che sia il mercato a farlo, sarà la nuova sfida delle amministrazioni cittadine.

La dimensione digitale della città, l’importanza delle sue reti attraverso cui trasferire informazioni, grazie alla chiusura forzata e alla necessità di rimanere comunque collegati per continuare a vivere, sia pur dentro ad una dimensione virtuale, ha prodotto un’accelerazione senza precedenti della nostra educazione digitale, con effetti straordinari sul versante delle imprese. In poco tempo abbiamo scoperto l’importanza di diventare smart citizens consapevoli, condizione indispensabile per rendere sempre più smart le nostre città, utilizzando appieno l’intelligenza generata dall’organismo urbano digitalizzato. Le molte aziende, sicuramente quelle che erano rimaste più indietro, sono state chiamate a innovare le loro reti e i loro processi. Nasceranno nuovi servizi, funzioni che sembravano destinate solo alle grandi metropoli potranno ritrovare, nei territori che scommettono sull’innovazione, nuove “centralità”. Si tratta di una inaspettata opportunità anche per le città medie. Dallo smart working alle video conferenze, la dimensione virtuale si è interposta alla dimensione fisica.

L’e-commerce per l’acquisto di beni e servizi, quasi residuale in modalità pre Covid-19, così come i pagamenti elettronici in modalità contactless, hanno subito accelerazioni impensabili, che incideranno sulla modalità future di vendita dei prodotti nelle nostre aree urbane e sulla stessa fruizione della città. L’e-commerce farà crescere i servizi legati alla logistica con effetti significativi non solo sul piccolo commercio al dettaglio, ma probabilmente determinando un processo di selezione dei grandi centri commerciali cresciuti negli ultimi anni. Questo inciderà in modo significativo sulle parti della città dedicate al consumo (vedi Padova est) che così come immaginate nei primi anni Duemila appaiono irrimediabilmente vecchie. Come riorganizzare il commercio dentro le nuove catene del valore e come organizzare le sue piattaforme logistiche in funzione di una città che conservi la sua vivacità: tutto ciò impone uno sforzo rielaborativo profondo che chiama in causa più attori, pubblici e privati, uniti dal comune interesse a mantenere vivo e rigenerare l’organismo urbano. La stessa rendita urbana, probabilmente sarà chiamata a partecipare ad una più equa distribuzione del reddito fra gli attori, pena il suo stesso impoverimento, o ameno quello degli attori che non sapranno stare al passo delle nuove sfide.

Per le scuole e in particolare per le città universitarie, la dimensione smart rimanda alle modalità in cui il rapporto maestro/discepolo continuerà ad essere il centro della relazione, oppure se consentirà di integrare la formazione o, addirittura, diventare sostitutiva della formazione in aula, con effetti rilevanti sulla funzione educativa, sulla nozione di sapere e sul rapporto fra il sapere e i luoghi in cui si trasmette. Questione davvero delicata, non solo perché la virtualità toglie fisicità alla relazione, ma anche perché quella presenza è componente essenziale della dimensione emozionale della città, contribuisce alla sua economia e alla sua stessa fisionomia identitaria. 

Se la digitalizzazione sociale ha indotto nuovi processi, la sperimentazione della vita in casa ha generato nuove domande di rapporto con il verde pubblico e con il verde dentro il proprio spazio privato. I terrazzini, concepiti in passato come angusti spazi residuali, hanno surrogato il bisogno di verde. Il giardino verticale, introdotto qualche anno fa dall’architetto Boeri in quel di Milano,  probabilmente diventerà - con superfici maggiori rispetto a quelle ereditate a partire dagli anni ’50 - un tratto distintivo delle nuove residenze, chiamate a far convivere la dimensione domestica, il lavoro e il rapporto con la natura. Lo diventerà necessariamente, qualora le condizioni tecniche lo rendano compatibile, anche nelle ristrutturazioni del patrimonio urbanistico esistente.

Di fronte a questi cambiamenti nel rapporto uomo-lavoro e uomo-spazio, un immediato riflesso, indotto anche dal distanziamento spaziale, introduce cambiamenti nell’organizzazione della mobilità urbana e nella pianificazione delle aree metropolitane.  Mobilità e insediamenti, in particolare quelli riguardanti i grandi magneti delle funzioni pubbliche, dagli ospedali ai teatri, dalle facoltà universitarie alle sedi della sicurezza pubblica, dovranno essere pensati dentro nuovi equilibri urbani per evitare quella che il massimo poeta veneto del novecento, Andrea Zanzotto, definiva la crescita a “casaccio”, troppo spesso guidata dalle proprietà delle aree.

L’impossibilità di trasportare grandi quantità di persone, almeno fintantoché il virus sarà presente fra noi, certamente costituisce un enorme problema dal punto di vista dello sforzo economico a cui sono chiamate le città e le società che gestiscono i servizi. La sua temporaneità non deve in alcun modo arrestare il lavoro per colmare il gap della mobilità di massa su sede propria, (tram), che caratterizza anche la nostra città. Le difficoltà di oggi rappresentano però, allo stesso tempo, una grande opportunità per ripensare, oltre al nostro modo di muoversi, anche il nostro rapporto con lo spazio e con la qualità della fruizione urbana. La ciclabilità, in troppi casi pensata in passato come elemento accessorio, diventerà strategica nel ridisegno della mobilità di quasi tutte le città italiane. L’avvento delle ebike rende possibile, a parità di tempo di percorrenza, lo spostamento in raggi urbani di 10 - 15 km. Si tratta di un investimento infrastrutturale dal costo relativo, che la città ha avviato con convinzione già dai primi anni Duemila, e di cui mi sono occupato personalmente portando a 170 i chilometri nel 2014. Questa spinta, assieme all’abbattimento dell’inquinamento atmosferico prodotto dalla mobilità ‘sporca’, introdurrà nuovi modelli organizzativi nel nostro sistema urbano, eliminando la congestione da traffico e consentendo di gestire diversamente i tempi della città e la sua fruizione.

La reinterpretazione della vita delle famiglie nella città, dalla pianificazione urbana, alla progettazione delle nuove forme dell’abitare, dalla gestione delle reti alla nuova mobilità, dalla dimensione smart degli abitanti e delle imprese, alle nuove forme della convivenza fra gruppi sociali e generazioni, sempre più diventeranno le condizioni per la rinascita, per consentire ai cittadini di interpretarsi come comunità di destino. La cura della persona e il suo sentirsi parte di una comunità che le offre opportunità e protezione dovranno essere la bussola del recovery plan cittadino. La strage di anziani avvenuta all’interno delle RSA obbliga ad andare oltre agli attuali modelli segregativi delle case di riposo per intraprendere nuove strade fatte di quartieri e di residenze dotati di un’alta protezione sociale, assistenza e medicina territoriale. Alcune esperienze avviate a Padova dalla Comunità di Sant’Egidio indicano primi significativi fermenti in questa direzione. Una sfida per la politica, obbligata ad andare oltre gli espedienti gestionali del metro di distanza fra i tavolini dei bar, per cimentarsi invece con scenari inediti della produzione manifatturiera e dei servizi, profili indispensabili per affrontare nuove competizioni.

Si tratta di questioni decisive che il Piano degli interventi sarà chiamato ad affrontare. Una grande occasione di dibattito pubblico, di confronto, che le linee guida del Piano indicate dai progettisti hanno in parte già messo in luce.

I caratteri del Piano

In occasione della presentazione delle linee guida del Piano nello scorso mese di dicembre 2020, i progettisti hanno sintetizzato i sette obiettivi che dovrebbero caratterizzare le azioni verso la città futura: uso consapevole del suolo e sicurezza territoriale, forestazione urbana e corridoi verdi e blu, rigenerazione e qualità urbana, città pubblica e policentrica, attrattività del centro storico e patrimonio diffuso, ricerca, formazione, innovazione e produzione e, infine, mobilità.4

Si tratta di un approccio improntato alla sostenibilità e all’innovazione, che la pandemia ha indicato a tutte le città come strada da percorrere. 

In via generale è utile ricordare come questi temi abbiano già costituito l’approccio alle trasformazioni della città avvenute fino all’interruzione dell’esperienza amministrativa delle giunte di centro sinistra del 2014. Da questo punto di vista va ricordato che il consumo di suolo[22] fra il 2001 e il 2011 ha visto in città un ridotto incremento del 6,17%, a fronte di un incremento medio provinciale del 18,34%, con alcuni ‘delta’ particolarmente significativi nei comuni della cintura metropolitana; nello stesso periodo le superfici a verde pubblico cittadine sono passate da 11,41 metri quadrati per abitante del 2004 ai 20 metri quadrati del 2013 con un incremento degli5 ettari totali del 70% (dai 244 del 204 ai 417 del 2013)[23]. Si potrebbe continuare. Mi limiterò ad accennare alle politiche della mobilità del decennio 2004-2014, che hanno visto la realizzazione della prima linea tranviaria da Pontevigodarzere alla Guizza, la realizzazione di una rete di piste ciclabili che ha portato la città a raggiungere nel 2014 i 170 km, e la pedonalizzazione di vaste aree del centro storico, unito al controllo con telecamere della zona a traffico limitato. E si potrebbe continuare…

In sostanza, si può dire che la cultura della sostenibilità (che le linee indicate negli appunti al Piano hanno messo in evidenza), fanno parte del vissuto della città, un approccio che è necessario adeguare alle nuove sfide.

Le parole del Piano e i nodi politici

Le suggestioni a cui le parole improntate alla sostenibilità rimandano, sono chiamate a fare i conti con la politica, con la coerenza delle scelte e con gli effetti negativi generati dal rapporto fra la bellezza delle parole e la dura concretezza della politica, concepita come incoerente “opportunità”.

Lo suggeriscono le vicende di queste settimane in cui la rigenerazione di due linee dell’inceneritore mettono in luce contraddizioni generate da scelte fatte a prescindere da una lettura generale della città, figlie di valutazioni in cui la sostenibilità dell’organismo urbano è passata in secondo piano rispetto ad altri interessi ed accomodamenti.

Il paradosso dell’inceneritore, che si ritrova a essere a poche centinaia di metri in linea d’aria dal futuro nuovo ospedale, mostra l’importanza della pianificazione e della valutazione di tutti gli elementi in gioco. La scelta di collocare il nuovo ospedale a Padova est, nell’area più congestionata dal traffico, in piena area commerciale e industriale, in una area inadeguata per dimensioni a ospitare persino la nuova Pediatria e l’Istituto Oncologico Veneto, a due passi dall’inceneritore, in un’area a rischio idrogeologico, è un concentrato di scelte che una buona politica non avrebbe mai dovuto consentire. Ma è la vita che ogni giorno si presenta a noi con le sue contraddizioni, che una volta riconosciute abbiamo il dovere di interpretare e correggere, abbandonando il piccolo cabotaggio che le hanno rese possibili, alzando lo sguardo per cercare di dare alla città un nuovo futuro.

Il nuovo ospedale per la città della salute globale

Il nuovo ospedale, per le cose che diremo più avanti sul mestiere della città e sulla città policentrica, è sicuramente il volano più importante per ragionare attorno alla città futura, non solo per i valori economici che l’opera è in grado di trascinare con sé, ma soprattuto per le funzioni che potrà generare e per il valore simbolico che potrà trasmettere.

La pandemia, con il suo carico drammatico di decessi e di stress sulle strutture sanitarie, ha messo in evidenza l’importanza della salute, intensa non solo come cura e prevenzione, ma come salute globale della persona, fatta di stili di vita, di benessere individuale e collettivo. In una parola, di qualità della vita nella città, che come ricordava Robert Kennedy, dovrebbe diventare il riferimento per misurare la nostra crescita[24]. Il nuovo ospedale, in questo senso, può essere letto non solo nei termini specialistici, da addetti ai lavori con cui è stato fino ad oggi interpretato, ma come straordinario motore di una città che si reinterpreta e si immagina proiettata nel futuro come città della qualità ambientale, del benessere psicofisico, città in cui si vive bene e investe su queste sue qualità. Se, come alcune recenti ricerche mettono in evidenzia, la pandemia renderà meno attrattive le grandi città, e lo smart working renderà possibile vivere e lavorare in luoghi diversi, in quelle città medie in grado di offrire una migliore qualità della vita, fatta di relazioni umane e del buon vivere, di qualità dell’offerta culturale,  di ambienti multiformi (colline, mare, altre città d’arte, montagne incantevoli) per la gita fuori porta, e se questi elementi diventeranno ancora di più centrali nella valutazione per l’insediamento di persone e imprese, ebbene Padova ha tutte le potenzialità per candidarsi ad un ruolo importante. In questo senso il nuovo ospedale, reinterpretato in chiave simbolica quale alimentatore di competenze e di nuovi modelli e stili di vita, può diventare un valore straordinario nel concorrere a stimolare la crescita della città. Padova città della salute globale, da slogan suggestivo potrebbe diventare una chiave di sviluppo della persona, dell’economia della città e del suo ruolo a livello nazionale.

Se si assume questa prospettiva è l’intera area di Padova est a dover essere ripensata. Da area commerciale dedicata al consumo, potrà essere reinterpretata come polo della salute, della ricerca, della bio medicina. Per dirla con una parola che rimanda a molteplici significati, Padova est dovrà essere riprogetta come “Parco della salute”, un parco tecnologico, luogo della ricerca e allo stesso tempo dedicato alla cura e al benessere della persona.

Si tratta di una sfida per la città e per chi è chiamato alla redazione del Piano degli Interventi, in quanto sono le funzioni urbane ad essere chiamate in causa. Una sfida per collegare, non solo a parole, il polo ospedaliero di via Giustiniani con quello nuovo di San Lazzaro. Una sfida destinata a cambiare, allora sì, il volto dei quartieri interposti, da via Maroncelli e Ognissanti, naturali ponti di collegamento fra le due aree. E proprio questa prospettiva che rende sbagliata la collocazione della nuova questura in via Anelli perché, continuando a concentrare nel nodo Stanga tutte le funzioni (Comando interregionale Carabinieri, Vigili del Fuoco e Guardia di Finanza - mancherebbe solo la Prefettura), si svuota la prospettiva della città policentrica che solo la presenza di grandi funzioni urbane può alimentare. 

1)       Uso consapevole del suolo e sicurezza territoriale

Se, come ricordato, la città ha da tempo avviato una significativa riduzione dell’uso del suolo e la contemporanea espansione del verde pubblico a disposizione dei cittadini, non si può non notare come il contemporaneo aumento dell’urbanizzazione nei comuni della cintura metropolitana, in particolare ad Albignasego e Vigonza, ponga un serio problema all’organizzazione della mobilità complessiva e dei servizi, che va necessariamente affrontato come pianificazione di area vasta. Il caso di Albignasego, da questo punto di vista è esemplare, sia in termini di consumo di suolo, sia di inadeguatezza della sua rete viaria di adduzione alla rete tangenziale, questioni che in presenza di una pianificazione funzionale alla sola crescita della residenza e non al suo muoversi, hanno finito per determinare effetti a cascata sul sistema complessivo. Le vicende della ‘bretella Ferri’, pretesa dal comune di Albignasego nel territorio di Padova, e della Gronda sud ferroviaria sono, da questo punto di vista, emblematiche. Questioni, appunto che rimandano alla necessità di una visione d’insieme che non possono essere affrontate in una logica di scambio di favori.

Un aspetto delle politiche di contenimento del consumo di suolo e del suo espandersi nei comuni della cintura urbana è determinato dai diversi valori della rendita urbana, che ha provocato negli anni la fuga dalla città, ormai attestata attorno ai 210 mila abitanti, dopo aver superato i 240 mila negli anni ’70, e il contemporaneo invecchiamento della popolazione residente. Contemperare politiche di riduzione del consumo di suolo e di contemporanea attrazione di coppie giovani sarà una delle sfide a cui il Piano è chiamato a fornire risposte.

Ma riduzione del consumo di suolo, in un’area fortemente urbanizzata, è questione che rimanda alla sicurezza idraulica del territorio, messa a dura prova dai cambiamenti climatici in atto.

2) Rigenerazione e qualità urbana

Si tratta di una indicazione strategica che ha animato il dibattito e la ricerca di soluzioni fin dal 2010. Va ricordato, a questo proposito, il fondamentale stimolo alla discussione generato dalle sollecitazioni del presidente del Consiglio nazionale degli architetti, Giuseppe Cappochin, le cui intuizioni hanno  dato avvio ai primi tentativi di rigenerazione di vaste aree “degradate” o bisognose di trovare nuove funzioni, relazioni interne e soluzioni architettoniche. Da questo punto di vista vanno ricordati, in particolare, alcuni lavori commissionati dall’amministrazione comunale relativi alla riconversione e riqualificazione della ZIP nord[25], la rigenerazione dell’”ansa” di Borgomagno[26]  che la collocazione del nuovo ospedale in zona ovest avrebbe stimolato, e il progetto di rigenerazione Padova soft city[27] relativa alla all’asse Tommaseo, Stanga, via Longhin. Va inoltre ricordato l’avvio di un’ampia discussione sul nodo della Stanga, che si interfacciava con il progetto Soft city, con la significativa partecipazione di quasi tutti i proprietari degli immobili chiamati, assieme all’amministrazione, a costruire un piano di rigenerazione di un sistema urbano che mostra tutta la fragilità per le tante sovrapposizioni generatesi nel corso degli anni. Si tratta di lavori probabilmente finiti in qualche cassetto, che forse conservano ancora qualche utile indicazione.

Quello che questi primi tentativi di progetto raccontano è che la città, anche in tempi in cui le parole/programma di oggi non erano ancora di moda, ha prodotto riflessioni e progetti di un qualche significato. Proprio per questo probabilmente andrebbe evitata l’inutile e dannosa tabula rasa che, in particolare amministrazioni di colore diverso (vedi la vicenda tram ed anche nuovo ospedale), tendono a mettere in atto. Con l’unico risultato di far perdere anni preziosi alla città. 

Ma la di là dei primi timidi primi tentativi fatti in passato, sarà necessario rileggere e reinterpretare i troppi quartieri cittadini sorti negli anni 50/60, la cui caratteristica è data dall’assenza di spazi pubblici e dalla presenza un reticolo viario disordinato, di ridotte dimensioni e privo di parcheggi.  Se il Piano degli interventi, nella consapevolezza che in un arco temporale ridotto non sarà possibile realizzare operazioni significative, saprà offrire all’amministrazione nuove indicazioni in grado di stimolare la parte privata e ad offrire indicazioni per migliorare l’immagine del complesso e dei singoli edifici, un risultato buon si sarebbe comunque ottenuto. 

3) La rigenerazione urbana e la città pubblica e policentrica

Le suggestioni della rigenerazione urbana, della trasformazione di quartieri nati sotto la spinta della espansione edilizia degli anni ’50 - ’70, e delle sue varianti speculative, si trovano a fare i conti con le difficoltà normative e soprattuto con la frammentazione della proprietà che caratterizza la struttura immobiliare di Padova, ma anche di quasi tutte le grandi realtà italiane. Per questo, un ruolo chiave bene indicato nella proposta, è chiamata a svolgerlo l’iniziativa pubblica finalizzata al rafforzamento delle relazioni e delle funzioni dei diversi quartieri che compongono l’organismo urbano. L’obiettivo della città policentrica, realizzabile attraverso la distribuzione dei servizi in aree esterne che consentano le funzionalità della “città dei 15 minuti”, necessità di un pensiero programmatico che abbandoni la casualità delle scelte per orientarsi verso obiettivi di lungo periodo.

Non è più sufficiente il lavoro fatto nel corso di un decennio di rafforzamento dei quartieri attraverso la realizzazione di piazze e parchi. Sicuramente è stato un intervento prezioso, se vogliamo anche anticipatore, che lavorando attorno al valore simbolico/identitario delle chiese e degli edifici pubblici, in particolare di quelli scolastici, ha cercato di ricucire realtà poco strutturate. E’ utile qui ricordare gli interventi di piazza Cuoco alla Guizza, della piazza di Voltabarozzo, della pedonalizzazione dell’area adiacente la chiesa di Brusegana, la realizzazione della piazza di Salboro, la realizzazione del monumento ai Giusti a Terranegra, la sistemazione del sagrato della Parrocchia di San Gregorio, per non parlare della sistemazione dell’area centrale di Mortise. Senza contare opere più centrali quali la pedonalizzazione della Piazza Eremitani/Porciglia, la configurazione pedonale e funzionale della piazza antistante la Stazione Ferroviaria e la realizzazione della piazza del “Portello”, con le sue fontane indicanti un sentiero verso il fiume (purtroppo non curate come meriterebbero), che ha liberato uno degli spazi più suggestivi della città dall’ingombrante e deturpante presenza delle auto, sia di quelle in sosta, sia di quelle di attraversamento che separavano la piazza dalla sua quinta più importante rappresentata dalla Porta Ognissanti. Interventi realizzati con risorse spesso modeste che sono servite però ad indicare una nuova rotta, quella dei luoghi della socialità nello spazio pubblico, dopo le stagioni delle piazze parcheggio e delle enunciazioni senza opere.

Va inoltre ricordato il concorso di progettazione delle piazze dei quartieri[28], I ‘luoghi delle emozioni”, Padova territorio per azioni[29], affidato nel 2012 ai giovani architetti che contengono utili indicazioni su cui varrebbe la pena di soffermarsi.

Oggi è certamente necessario un salto di dimensione negli interventi, perché diversa è la consapevolezza del valore dei luoghi e dell’identità che aiutano a definire.

In questo senso le opere pubbliche, soprattutto quelle relative alle funzioni più importanti, costituiscono volani straordinari di qualificazione dei luoghi e di generazione di nuovi valori urbani, anche sul piano immobiliare. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante perché può stimolare anche l’interesse dei privati, altrimenti difficile da realizzare. Si realizzerebbe in questo senso un salto di scala dalle identità definite dall’immagine dei luoghi alle identità fatte di memoria e allo stesso tempo funzionali alla vita contemporanea.

Un caso da manuale, come abbiamo ricordato, è quello della nuova Questura di Padova, funzione urbana di assoluta eccellenza per tutte le attività e i servizi che è in grado di attivare, che sarebbe riduttivo collocare all’interno della città solo come mal interpretato gesto riparatore rispetto ad un passato di cattiva cronaca. L’indicazione di una nuova collocazione in via Anelli, dettata solo ed esclusivamente dal possesso delle aree, rischia di essere, da questo punto di vista, un’occasione mancata. Gli interventi di rigenerazione su richiamati, dal progetto Soft City a quello riguardante la prima zona industriale nord, e alla necessità di ripensare all’intero asse che dal casello di Padova est si snoda fino alla Stanga, su cui recentemente mi sono soffermato, (vedi Lo sviluppo scorsoio di Padova est post pandemia)[30], rendono la collocazione della questura, nell’angusto retrobottega dell’Auchan, un enorme spreco di opportunità per la città. Diversa sarebbe una sua collocazione in zona San Carlo, lungo l’asse del Tram e a un chilometro dalle tangenziali, e dunque raggiungibile da qualsiasi parte della città. E’ un’occasione straordinaria che consentirebbe di dare organicità agli interventi su aree critiche e dal profilo incerto. La vicenda della ex palazzina Coni in zona san Carlo, interpretata come oggetto a sé stante, al massimo può prestarsi a diventare contenitore di estemporanee funzioni; diversamente un ripensamento che metta insieme il diverso coacervo di funzioni urbane potrebbe generare effetti rigenerativi duraturi. Si tratterebbe, dopo anni di tentativi, di dare finalmente al quartiere Arcella-San Carlo una sua riconosciuta centralità.

Il Piano degli interventi, per essere una cosa vera e non un semplice atto previsto dalle norme sulla pianificazione, dovrebbe possedere in sé la scommessa della città futura. Diversamente si ridurrebbe a generiche indicazioni, destinate a rimanere esercizio di stile sulla carta.

Le centralità dei quartieri nella città policentrica, per non rimanere slogan vuoto simile ai tanti che a partire dalle elezioni dei primi anni ’80 hanno caratterizzato vari programmi politici, ha bisogno di uno sforzo interpretativo concentrato sulle funzioni generative. In questo senso andrebbe anche rivisto il vocabolario e il lessico della politica, che negli ultimi anni ha fatto un uso improprio delle parole ‘riqualificazione’ e ‘degrado’, perché la sfida oggi è concentrata sulla capacità di dare alle nuove centralità il senso di città.

La sfida delle funzioni urbane nella nuova città policentrica è anche la sfida delle moderne cattedrali della cultura. Lo ha ricordato il presidente del Teatro Stabile del Veneto in un suo recente intervento pubblicato su Il Mattino di Padova sotto forma di lettera aperta all’architetto Boeri, in cui richiama la necessità di un grande spazio per la musica e il teatro a servizio dell’area centrale de Veneto. Emerge dunque, ancora una volta, l’esigenza di coltivare i possibili ruoli della città, delle sue funzioni di rango metropolitano, dei suoi quartieri e della sua collocazione centrale nello spazio veneto. Questioni a cui encomiabilmente si sono dedicati in questi anni il presidente del Teatro Stabile e dell’Orchestra di Padova e del Veneto, che però necessita di un ruolo guida dell’amministrazione in rapporto con le altre grandi città del Veneto.

4) Forestazione urbana e corridoi verdi e blu

I fiumi e le mura difensive del Cinquecento, accanto alle vie carrabili e d’acqua, hanno disegnato il paesaggio urbano di questa parte della pianura. Un ruolo importante nella conservazione e riconfigurazione degli spazi aperti è stato determinato dalla tramatura della campagna che, come ci ricordano i nomi di alcune località, rimandano agli ampi spazi boscosi che formavano il contado extra moenia (Silvazanum, Selburia, Carpanedum o Guizza - bosco comunale dal longobardo wiffa), così come via Guasti rimanda alle necessità difensive della città e al conseguente taglio di quei boschi. Basterebbero questi sommari richiami a guidare l’opera di “forestazione” consentita da un territorio che, nonostante la sua dimensione antropizzata, è ancora oggi, in particolare la sua area a sud, un territorio comunale in cui l’attività agricola è molto presente.  

Certo è che se oggi la città dispone di una superficie di oltre 4 milioni e cinquecentomila metri quadrati di verde pubblico, in particolare con la disponibilità delle aree per la realizzazione dei parchi Iris, del Basso Isonzo e della Guizza, lo si deve alla perequazione urbanistica introdotta su proposta del compianto assessore Luigi Mariani[31], che ha consentito alla città non solo di ridurre il nuovo costruito ma anche di portare a patrimonio pubblico una superficie davvero ragguardevole. E’ in primo luogo su queste aree che la forestazione assume un significato forte, senza dimenticare il decisivo apporto dei privati, anche a tutela della stessa agricoltura.

Così come un’attenzione alla forestazione possibile lungo i corsi d’acqua, con gli argini oggi attrezzati a straordinario percorso-vita lungo i fiumi, potrà imprimere nuova qualità al paesaggio. Si tratta di questione delicata, che va affrontata con il Genio civile regionale, curatore delle acque e della sicurezza dei territori attraversati, su cui ho avuto modo di confrontarmi nel corso degli anni, ottenendo con grandissima fatica una prima quanto timida piantumazione regolata lungo gli argini del Bacchiglione, dello Scaricatore e del canale di San Gregorio. Quei percorsi pedonali e ciclabili hanno avuto la proprietà di imprimere una svolta nella cura del corpo per decine di migliaia di padovani, una sorta di anticipazione della città della salute globale, lungo i cui percorsi molto è ancora possibile introdurre in termini di qualità.

Ma è il paesaggio urbano, il recupero di superfici verdi all’interno dell’edificato che potrà incidere nella rimodellazione di un nuova fisionomia del rapporto fra il naturale e il costruito. Il rapporto fra la città e la ‘selva oscura’, quella contro cui ci si difendeva erigendo mura, offre nuove prospettive alla qualità della vita nella città contemporanea.

5) Mobilità sostenibile e attrattività del centro storico

Tema antico a cui la città ha cominciato ad affacciarsi, nella sua versione sostenibile, attorno agli anni ’80 con le amministrazioni Gottardo e Giaretta[32] prima, e successivamente con quelle Zanonato e Rossi. La parentesi Destro, almeno in tema di mobilità, può essere considerata una sorta di cortocircuito, per le convulsioni sul tram e per il ritorno alle auto nella parte delle piazze in precedenza liberate e delimitate con catene mobili. E’ in quegli anni che si gettano le basi della prima timida ciclabilità[33], delle prime pedonalizzazioni e del ritorno al trasporto rapido di massa rappresentato dal Tram. Le grandi linee d’intervento possiamo dire siano state implementate ed oggi formano una solida trama da completare, a partire dalle nuove linee tranviarie già programmate fin dai primi anni 2000, e con i nuovi strumenti di mobilità che le tecnologie mettono6 a disposizione. La recente richiesta di finanziamento, all’interno dei progetti che il recovery plan destina alle città è una straordinaria opportunità per completare la rete ed anche di aggiornamento dei progetti ai nuovi contesti e alle nuove traiettorie.

Forse un’attenzione in più andrebbe dedicata al collegamento tranviario con la zona industriale[34], oggi raggiungibile solo su gomma, su cui era stato predisposto un progetto e richiesto, in epoca di vacche magrissime, il relativo finanziamento.

Padova, dunque, con un patrimonio di aree pedonalizzate nel centro storico e di alcune aree dei quartieri, con oltre 170 km di piste ciclabili interconnesse grazie ai nuovi ponti realizzati[35], assieme alla prima linea tranviaria, consolida un indirizzo che è diventato patrimonio culturale anche di quei settori sociali tradizionalmente più scettici.

6) Economie in cerca di città: Università, ricerca, sanità e servizi

Economie in cerca di città’, è il felice titolo di un saggio di Antonio Calafati con cui abbiamo avuto modo di confrontarci qualche anno fa discutendo delle basi economiche della città futura, delle competenze necessarie e degli asset da consolidare o di quelli nuovi da attrarre. Temi centrali in cui l’urbanistica diventa interprete delle aspirazioni collettive, delle sue potenzialità latenti e delle trasformazioni possibili. Le architetture e l’urbanistica del Novecento rimandano alle traiettorie sviluppate e a quelle perdute.

Sono fatte di luoghi del sapere (Università) sviluppatisi lungo il Piovego e successivamente a macchia di leopardo, all’interno della città. Si tratta di tracce che indicano la funzione strategica che l’Università ha generato non solo sul piano della formazione, ma anche nel determinare le attività della città[36], la sua capacità di attrazione di persone che, dapprima come studenti e successivamente come cittadini, sono diventati motori di sviluppo della città e della crescita del suo PIL. Non è un caso che la discussione sulla necessità di investire sulla salute e su un nuovo polo ospedaliero quale hub regionale e nazionale, sia partito su impulso dell’amministrazione cittadina nel 2004. Si è trattato di un lavoro paziente per convincere in primo luogo il personale sanitario, il cui approccio conservativo aveva portato nel corso degli anni al saccheggio delle mura o alla previsione di edifici impattanti quale la “barchetta” di Botta. Sbaglia chi, superficialmente e con un po’ di superbia, pensa che quella discussione sia stata inutile chiacchiera, perdita di tempo della politica. Quella discussione, con le passioni che ha messo in campo, con le contrapposizioni che ha evidenziato, e con la maturazione che ha saputo far crescere, sono state la premessa che ha consentito, come accade in moltissime opere, alla città di raccogliere i frutti seminati dai tanti che ci hanno lavorato prima. In fondo, come ricordava Bernardo di Chartres ‘siamo tutti nani sulle spalle dei giganti, possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'acume della vista o l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti’. Quella faticosa discussione ha creato le premesse di questi ultimi anni, anche se la collocazione finale, ha ridotto le potenzialità dell’intervento di sviluppo della ricerca che si era originariamente immaginata[37].

Proprio quella ricerca indica il punto focale della rigenerazione di tutto il quadrante est, quello che dal casello autostradale si sviluppa verso la Stanga, comprendendo la prima zona industriale. Sarà questa una delle sfide più importanti a cui sarà chiamato il Piano degli interventi, perché contribuirà a definire il “mestiere” di Padova.

Attività manifatturiere e il ruolo della logistica

Nell’immaginare la Padova della ricerca e della salute, diventa essenziale, per i riflessi che questi straordinari motori potranno avere sulle attività direttamente produttive, tornare a riflettere sulla zona industriale, su come è cambiata e sui notevoli vuoti che si stanno creando. Le regole di governo del passato, quelle della sua fase espansiva immaginate negli anni ’60 - quando con grande sapienza l’amministrazione cittadina guidata dal sindaco Cesare Crescente decise di dedicare alla produzione manifatturiera circa il 12% dell’intera superficie del Comune di Padova e di accompagnare gli insediamenti industriali attraverso uno strumento come il consorzio ZIP che, caso unico in Italia, ha consentito la realizzazione di un intervento in cui la produzione si sposa con la qualità dell’ambiente in cui avviene - oggi quell’impianto non regge più. La zona, che pure ha visto crescere[38] e consolidarsi un importante polo della logistica ruotante attorno all’interporto, oggi sta cambiando pelle in profondità e ha bisogno di un disegno e di adeguati strumenti di governo[39] che accompagni, per la stessa vitalità del tessuto economico padovano, il passaggio verso i nuovi orizzonti del settore manifatturiero apertisi con l’industria 4.0[40]. Questa discussione, in cui sono chiamati a svolgere un ruolo da protagoniste le imprese assieme al mondo della rappresentanza e della Camera di Commercio, sul solco del Progetto Padova 4.0[41], è essenziale per il futuro della manifattura e dell’occupazione in un settore cruciale, che nonostante i tanti profeti di sventura è, anche in piena pandemia, la principale protagonista dell’export padovano e veneto.

Padova è sicuramente, pur sottovalutata durante il Novecento, una straordinaria città d’arte. Città capitale dell’affresco. Per lungo tempo, quasi recidendo le solide radici storico-culturali, ha preferito immaginarsi e raccontarsi come la Milano del Veneto, la capitale economica e finanziaria della regione.

La città ha attratto persone perché era un luogo in grado di offrire opportunità economiche e perché favoriva, allo stesso tempo, il perseguimento di obiettivi sociali ed economici vantaggiosi per tutti coloro che vi vivevano.

Oggi la riflessione su chi siamo, dove andiamo, di che cosa vivremo, e dunque come ci incammineremo verso un nuovo percorso, diventa questione essenziale, in cui l’urbanistica è chiamata a dare forma alle aspirazioni.

Ma è la politica a doversi interrogare, a cogliere lo spirito della città e a interpretarlo. Nessuna delega tecnica potrà mai sostituire la generazione di un senso di una comunità in cammino, portatrice di un destino comune.

E’ una sfida affascinate, che va affrontata con lo spirito con cui Shakespeare racconta la nostra città: Per il grande desiderio che avevo di vedere la bella Padova, culla delle arti sono arrivato … ed a Padova sono venuto, come chi lascia uno stagno per tuffarsi nel mare, ed a sazietà cerca di placare la sua sete.

Una sete di futuro.

Appendice:

Padovasmart[42]

7   Nel marzo del 2014, nella presentazione del rapporto su Padova città smart[43], su cui comme amministrazione avevamo lavorato nel corso del 2013 con la Camera di Commercio presieduta da Fernando Zilio, e a cui si rinvia, si scriveva: “Il progetto si articola secondo quattro diverse prospettive territoriale (i progetti sul territorio), comunitaria (le comunità che li gestiscono), cognitiva (come queste interagiscono tra loro), regolativa (con che regole lo fanno). Questo in vista di leggere e organizzare il tessuto socio-economico della comunità metropolitana secondo una nuova connettività cognitiva capace di generare senso organico e collaborazione”.

Partecipazione è dunque un elemento imprescindibile di questo processo: la governance aperta a tutte le intelligenze del territorio è una operazione di knowledge management, oltre che un esercizio di democrazia. Non solo è più giusta, ma più efficace. La strategia punta a una nuova identità della città:  per competere, nella capacità di creare relazioni tecnologiche e connessioni tra le aree della ricerca scientifica, sia pubblica che privata, e know-how;  per un ambiente urbano sostenibile, dal risparmio energetico degli edifici, alla mobilità urbana e nella produzione di energia da fonti rinnovabili;  per una città socialmente coesa che aiuti superare le difficoltà nel partecipare alla vita”.

Indicazioni di valore strategico e puntuale che conservano una loro straordinaria attualità.

 


[1] Comunità Metropolitana di Padova, istituita il 31 maggio 2003

[2] AAVV, Padova nel nord-est che guarda all’Europa, Libreria Rinoceronte editore, 1994 (a cura di Ivo Rossi)

[3] AAVV, Padova Comunità Metropolitana, Cleup, 2005

[4] Territorial Reviews on urban and metropolitan regions, 2010 OECD, Rapporto su Venezia Metropoli, Fondazione di Venezia, 2010, Marsilio

[5] AAVV, Quattro Venezie per un Nordest, Marsilio, 2019 (a cura di Paolo Costa)

[6] Giuseppe Dematteis, Pietro Bonavero, Il sistema urbano italiano nello spazio unificato europeo, Il Mulino, 1997

[7] https://www.asvess.it/gruppi-di-lavoro/gruppo-di-lavoro-sostenibilita-demografica/

  https://www.asvess.it/gruppi-di-lavoro/gruppo-di-lavoro-lavoro-sostenibile/

[9] Maurizio Mistri, La Città Metropolitana, edizioni La Gru, 2013

[10] Deliberazione del Consiglio Comunale di Padova n. 2012/0060 del 19/11/2012

[11] Disegno condiviso in via preliminare anche dai sindaci dei comuni di Cadoneghe, Vigodarzere, Montegrotto e Abano Terme

[12] Indicazione confermata dal successore, il sindaco Giovanni Manildo

[13] Quinta Legislatura, Proposta di legge d’iniziativa del consigliere Ivo Rossi, Progetto di legge n. 305

[14] AAVV, Padova nel nord-est che guarda allEuropa, Libreria Rinoceronte, 1994

[15] Si ricordano qui i contributi di Sabino Acquaviva, Dino Bertocco, Franca Bimbi, Mario Carraro, Umberto Curi, Paolo Feltrin, Ferruccio Macola, Enzo Pace, Corrado Poli, Amedeo Levorato, Claudio Bellinati, Renato Troilo, Vincenzo Pace

[16] AAVV, Nuovi strumento di governo per le città medie. Problematiche giuridico-istituzionali in aree non metropolitane, Provincia di Padova  - 2014 (Livio Paladin pp. 14-24)

[17] Linea tranviaria Stazione, Ospedale, Stadio Euganeo

[18] Umberto Trame, I luoghi della cura. Studi e progetti per il nuovo ospedale e la facoltà di medicina della città di Padova, Il Poligrafo, pag. 236

[19] Il Grande raccordo anulare di Padova (Grap) è un’opera strategica necessaria per liberare i quartieri ad ovest della città dall’insostenibile traffico di attraversamento (il più intenso  fra tutte le direttrici di ingresso alla città), costretto ad attraversare ambiti fortemente urbanizzati per raccordarsi con la tangenziale e con le vicine autostrade. La presenza del traffico pesante rende particolarmente grave la situazione. L’opera appare indispensabile anche in previsione della realizzazione della linea del Tram in quanto l’infrastruttura tranviaria, a parità di traffico, risulterebbe fortemente depotenziata o compromessa nella sua efficacia.

[20] Va qui ricordato che la Gronda sud corre in buona parte in accostamento al corridoio rappresentato dal raccordo autostradale che congiunge l’A4 alla A13

[21] Mirko Sossai, Un’idea per Padova -ripensare la città insieme, Cleup editrice, 2017

[22] Carta del consumo di suolo

[23] Superfici a verde pubblico

[24] Robert Kennedy - “Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari, lintelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Università del Kansas, 1968

[25] Padova est innovazione - riconversione e riqualificazione della ZIP nord di Padova, a cura del gruppo di lavoro coordinato dall’architetto Franco Zulian

[26]Progetto di rigenerazione dell’area di Borgomagno, architetto Antonio Sarto

[27] Padova soft city, Istituto Boella, Politecnico di Torino

[28]  AAVV, Progetti di riqualificazione urbana per la città di Padova, AIO’N Edizioni, 2014

[29]  https://spaziobiancoarchitettura.blogspot.com/2012/05/padova-i-luoghi-delle-emozioni.html

[30]  http://www.ivorossi.it/nuovo/index.php?option=com_k2&view=item&id=47:lo-sviluppo-scorsoio-di-padova-est-al-bivio-della-pandemia&Itemid=486

[31] Luigi Mariani, La variante ai servizi del piano regolatore di Padova, Padova e il suo territorio, 2008

[32] Il primo progetto di linea tranviaria, con relativa richiesta di finanziamento, 1192, è stato redatto dall’amministrazione guidata dal sindaco Paolo Giaretta con assessore alla mobilità Mario Liccardo

[33] Nel 1991, per promuovere la ciclabilità urbana, su iniziativa del sindaco di Padova, Paolo Giaretta e da quelli di Milano e Torino viene data vita all’Associazione Italiana Città Ciclabili, di cui sono stato Presidente dal 2004 al 2007, prima di lasciare la responsabilità a Marino Bartoletti

[34] Linea Voltabarozzo - Stazione, integrazione raccordo con zona industriale/interporto.

[35] Padova ciclabile - Storie di ponti antichi e moderni, reali e virtuali, Galileo rivista degli ingegneri di Padova, n. 190, 2009

[36] https://www.unipd.it/smact-competence-center

[38] A Mario Volpato, presidente della Camera di Commercio dal 1969 al 1982, si deve l’intuizione della realizzazione dell’Interporto merci di Padova e la riorganizzazione delle primordiali e disordinate attività logistiche poste a ridosso delle mura cinquecentesche.

Un capitolo meriterebbe una riflessione sulla logistica contemporanea, che trascende il riduttivo affitto di aree e capannoni. Oggi la sfida per attrarre imprese e operatori abbisogna di soggetti pubblico privati che guardino alle nuove frontiere dell’intelligenza incorporata nelle merci, e non solo ad un’offerta di spazi di movimentazione. Trieste è un esempio di rinascita di una città che sembrava marginale. Voglio qui ricordare che il presidente dell’autorità portuale di Trieste, protagonista assoluto del rilancio del porto e della stessa città, era stato da me proposto per la direzione del nostro Interporto. Una occasione persa.

[39] Accanto alle regole di utilizzo delle aree è necessario che la città sia dotata di uno strumento in grado di promuovere l’attrazione delle imprese. La messa in liquidazione della Zip, senza adeguate alternative funzionali, rischia di depotenziare il ruolo manifatturiero della città.

[40] Gianni Potti, Industria 4.0 storia di macchine e di uomini, Ares editore, 2020

[41] https://www.unioncamere.gov.it/csr/P42A2258C154S153/CCIAA-Padova--Padova-4-0--un-progetto-per-creare-la-citt%EF%BF%BD-del-futuro.htm

[42] Padovasmart un’idea di città.  https://www.youtube.com/watch?v=Bf1AO1lVK1g&t=26s

[43] Francesca Gambarotto, Alberto Camozzo, Rapporto Padova Smart, 2014

Chi sono

Sono nato il 18 marzo 1955 a Padova dove vivo con mia moglie Franca. Sono laureato in Scienze Politiche con voto 110 su 110 e lode, con una tesi sugli istituti di democrazia diretta.

Sono dirigente della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie dove mi occupo di autonomie speciali e del negoziato per l’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, in materia di autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario. Faccio parte della Commissione Tecnica per i fabbisogni standard di comuni e regioni e della segreteria tecnica della Comitato per la Banda ultra larga. 

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