Grazie, don Dino. Salboro non dimentica il suo sacerdote cooperatore
Don Dino Breggion, il cappellano che nei primi anni ’60 ha cominciato la sua vita sacerdotale a Salboro, ci ha lasciato. Rendergli un compiuto omaggio per ringraziarlo del lungo impegno pastorale e umano è per me difficile, perché il nostro rapporto, iniziato negli anni sessanta, ha vissuto per lunghi anni solo nel ricordo. Solo verso la fine degli anni ’90 ci siamo reincontrati in quel di Santa Margherita d’Adige, ed è stato come se due persone che non si vedevano ormai da decenni, avessero conservato un invisibile filo che le univa e consentiva loro di parlare come si fossero lasciate solo qualche giorno prima.
Il mio è dunque il ricordo di un bambino che, grazie a don Dino, ha mosso i suoi primi passi dentro l’impegno e la responsabilità in una dimensione comunitaria. Ricordo ancora, quando a cavallo fra il 1961 e il 1962, mi chiese di “fare il chierichetto”, di “servire messa” e di assisterlo durante le celebrazioni. Non arrivavo all’altare tanto ero piccolo (come la foto in processione testimonia), ma il suo incoraggiamento e la fraternità con cui si rapportava con tutti noi bambini, sono stati preziosi per la nostra crescita. Ci ha introdotto alla messa in latino, che trasmetteva il senso del mistero e il valore della solennità dei riti. Fu ancora lui, che con l’introduzione della messa in italiano e il cambio della liturgia voluta dal Concilio Vaticano II, volle che le letture e l’intonazione dei canti fossero fatti da alcuni di noi. E’ stata una grandissima esperienza, che ci faceva sentire tutto il peso di una responsabilità, che per un bambino di sette-otto anni, era enorme. Ma è stata straordinariamente formativa, ci ha aiutati a mettere le fondamenta di ciò che saremmo diventati.
Don Dino, lo sentivamo uno di noi. Veniva da Fossaragna, un piccolo borgo in mezzo ai campi ai piedi dell’argine del Bacchiglione, dopo Bovolenta; in lui solide radici contadine, come quelle che ritrovò anche a Salboro, dove si sentiva a casa sua. Si parlava lo stesso linguaggio. Si stendeva il frumento ad asciugare davanti al sagrato della chiesa, a Salboro come a Fossaragna. Le messe all’alba a Pozzoveggiani, a cui facevano seguito le processioni per i riti propiziatori delle rogazioni, erano parte di una comune misteriosa esperienza. Così come lo era il saluto pasquale che i chierichetti, istradati dal cappellano, portavano in tutte le case ricevendo come gratitudine delle uova, compenso per il servizio reso durante l’anno. Le comuni radici hanno creato le premesse perché il ricordo di don Dino si insediasse nel cuore di tutti noi, non solo dei più piccoli. Mi rendo conto, mentre scrivo, che il ricordo di lui appartiene solo a quelli che hanno più di sessant’anni, ma riandare a quel tempo aiuta a capire da dove veniamo. Ricordo il suo rapporto con don Placido Ponchia - allora il cappellano aveva una casa propria e il parroco invece viveva nella vecchia canonica -, un rapporto fatto di rispetto e di disponibilità verso un uomo dalla forte personalità, che nella comunità di allora aveva un ruolo non solo di guida religiosa ma anche di guida civile. Erano gli anni in cui si discuteva e si disegnava lo sviluppo della Salboro di oggi, e il parroco era un protagonista decisivo. La nuova chiesa muoveva allora i suoi primi atti con la raccolta dei contributi settimanali “una pietra per la nuova chiesa”. Altri tempi…, le relazioni sembravano più semplici, e parroco e cappellano rappresentavano figure chiave in quel microcosmo che assomigliava all’universo.
Don Dino, con la sua semplicità e quel suo modo affabile, è entrato allora nei nostri cuori e non ne è più uscito. Per questo ricordarlo nel momento in cui non è più fisicamente fra noi, è un modo per continuare a saperlo da qualche parte, carico del bagaglio che ci ha trasmesso. Grazie don Dino
Ivo Rossi
Salboro 19 ottobre 2017
Nella foto: don Dino assieme a don Placido Ponchia in processione con i chierichetti, a Salboro.